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Abbasso Venezia e il chiaro di luna
di Luca Bandirali


Non sono stato al Festival di Venezia quest'anno, né vi parteciperò in futuro. Al Festival non accade nulla che sia della benchè minima rilevanza tanto per lo spettatore, quanto per il critico. L'orgia disordinata di pellicole non offre nulla che non vedremo (fra breve) nelle sale commerciali, la qualità degli autori presentati in rassegna oscilla tra il valore assoluto e universalmente riconosciuto (Rohmer) e l'inconsistenza correntemente blindata da un giusto anonimato (la pattuglia italiana escluso Amelio). Il Festival è evento mondano, e in quanto tale gode di un'esposizione televisiva impressionante: il mezzo televisivo moltiplica l'effetto-nulla, falsificando sistematicamente il discorso sul cinema, ridotto ad un balordo balbettio di attricette e gentili presentatori. Il Festival è telegenico: da una parte il corpo recitante, elegantemente bardato con i consueti smoking a nolo, dall'altra il meraviglioso pubblico, turisti in scarpe da tennis che applaudono a comando. La città lagunare porge alla telecamera il lato peggiore, quello di icona del post-turismo di massa, quello della disneyficazione di cui la rassegna cinematografica è il centro strategico. Lo spettacolo congegnato è anzitutto contenitore; allora Venezia diventa elitaria e snob per compiacere aspiranti intellettuali, prodiga dispensatrice di orrende riproduzioni leonine in similoro per gli amanti dei concorsi, mesta passerella di gente necessariamente famosa per i cacciatori di autografi. Ogni anno qui s'innalza il monumento al Midcult, quella cultura allargata (non proprio e non ancora di massa) che si traveste da alta cultura senza possederne lo spessore, che trova espressione nel cinema stilizzato e pagante dei Minghella ("Il paziente inglese") e degli Hicks ("Shine"). Da anni non ci si aspetta dal Festival nulla di nuovo: qui ci si limita (quando va bene) a ratificare l'esistente, a prendere atto del lavoro di autori consolidati ma semplicemente poco noti (vedi i Leoni attibuiti in passato a Takeshi Kitano e Tsai Ming Liang).

di autori consolidati ma semplicemente poco noti (vedi i Leoni attibuiti in passato a Takeshi Kitano e Tsai Ming Liang). L'edizione 1998 in particolare imbocca la strada senza uscita della celebrazione volgare, del cinema a braccetto: un regista italiano (con la barba) premia un regista italiano (con la barba), si mormora di telefonate vicepresidenziali e le voci di combine rappresentano il fatto più eclatante di una mostra modestissima, che vive di rancori esibiti.



A Venezia sfila Alberto Sordi, emblema di una stagione di sottocultura compiaciuta che sarebbe stato bene dimenticare almeno 20 anni fa, e sparge bile sui critici italiani (rei di ostracismo ai danni dei registi nazionali), supportato addirittura dal signor Laudadio, che da buon padrone di casa invita alla clemenza generale nei confronti di una cinematografia spenta, non certo rivitalizzata da un premio di latta. Il signor Laudadio preferirebbe un Festival senza gara, con i critici a svolgere il ruolo dell'informazione servile: immagina una sorta di enorme operazione pubblicitaria, un tripudio di anteprime per la stampa magnanima ed il pubblico festante, con tanto di sponsor, aperitivi, attore americano mummificato tipo Warren Beatty, e naturalmente tante belle signore. Non si preoccupi, Laudadio, ci siamo quasi.



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21 settembre 1998
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