la parola amore esiste
di Luigi Liccione
C'è tanta voglia di cinema "impegnato" in Italia.

E c'è tanta nostalgia del cinema tout court: ma tale rimane e ci si sorprende nel constatare che voglia/nostalgia di cinema risultino espresse in questo ultimo lavoro di Calopresti "La parola amore esiste". (Nonché a nostro avviso, e alla massima potenza, nell'ultimo documentario del suo archetipo Moretti): ma poco altro. Il film infatti promette abbastanza, ma si rimane molto male: narcisismo ectipo.
Non basta, infatti, essere innamorati di un'attrice, dosare riprese di Piazza Cavour e del lido di Ostia (!), condire il tutto con un frasario da I' Ching, innestato in una sotto-struttura di psicoanalisi alla camomilla,
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modello Rolandes Barthes, per rinnovare o ripristinare una nouvelle vague romana.
Non basta neppure l'apparizione dell'angelo verticale truffautiano di Gérard Depardieu, per disinnescare l'impianto didattico in cui, fin dai primi tre minuti, risulta bloccato questo lungometraggio.
L'idea è buona, le capacità tecniche ci sono, i soldi pure, ma perché, ci chiediamo noi, pensare che lasciando tutto alla recitazione (bella, non c'è che dire) di due o tre bravi e bellissimi attori, si possa fare un film. Ma cos'è un film?
Vogliamo dire: si uscirà mai dall'impianto ciclico preconfezionato di qualunque messinscena teatrale filmata, in cui tre quarti (e siamo larghissimi) di tutti i prodotti americani (e quindi nostrani) si muovono? Movimento, questo vorremmo. Eppure troviamo sempre stasi, per non parlare poi dei dialoghi: noia psicoanalitica.
Rimane un'ultima considerazione: Roma è bella, e sono belle anche le case romane del quartiere "piemontese" intorno a Piazza Cavour. Prendete una telecamera e fatevi un giro per le strade. Quanto cinema ci sarebbe!
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