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la maschera di ferro

di Luca Bandirali


Per un'arte de-genere

È cosa nota che lo sviluppo dell'arte cinematografica abbia riportato in auge categorie d'opere che in letteratura erano relegate ai margini: il western, il genere epico, il romanzo d'avventura sono gli esempi più ovvi di un tale revival. La teoria dei generi elaborata nell'ambito della riflessione sul cinema è attualmente oggetto di una critica serrata; sembra che a nessuno importi più di quei vecchi, pesanti involucri entro i quali prendeva forma il prodotto-film. Alcuni, perù, li trovano tranquillizzanti e soprattutto ancora indispensabili alla fabbricazione di una merce culturale senz'altra pretesa che quella d'essere venduta con profitto. Al di là dei singoli giudizi di merito, esiste attualmente un cinema commerciale d'umore mutevole, dai codici espressivi inafferrabili: è quello di "Men In Black", o di "Starship troopers". C'è poi un cinema commerciale involuto, confezionato secondo regole standard che appartengono ad almeno mezzo secolo fa: è quello di "Donnie Brasco", di "Qualcosa è cambiato", dei Levinson-Beresford-Ephron di tutto il mondo. Per questi signori è tutta una questione di casting, e una volta messi insieme gli attori giusti è sufficiente sfruttare il copione collaudato dei generi in voga: ecco allora "Il matrimonio del mio migliore amico", o "Insonnia d'amore", commedie sentimentali anacronistiche con la stessa classe di una vecchia auto da rottamare. Oppure "La maschera di ferro", tentativo passatista di film in costume dal taglio visivo spaventosamente omogeneo.

Leonardo Di Caprio

La maschera di ferro

Che una maschera in ferro battuto si offra al primo piano con maggiore efficacia dei volti degli attori protagonisti pare l'unico dato di rilievo dell'ultimo film di Randall Wallace, re degli incassi in una fase transitoria della stagione. Il culto del pubblico di massa per il kolossal "Titanic" garantisce un effetto moltiplicatore perverso; "La maschera di ferro" si affida completamente al traino-DiCaprio, rinunciando a costruire attorno al giovane attore la benché minima parvenza di decente messa in scena. La scelta del romanzo di Dumas padre consente oltretutto di clonare l'eroe, per l'estasi delle fans, e chissà se l'opportunità di imbattersi in un doppio DiCaprio scateni nuovamente il fenomeno della visione ripetuta che ha caratterizzato il film di Cameron. Ma tutto questo conta pochissimo nell'economia di un prodotto assolutamente alieno; da dove viene questo cinema decrepito, senza futuro e con un passato indegno? Che senso ha, in un momento in cui le immagini invecchiano con rapidità incalcolabile, generare forme incapaci di sopravvivere alla singola proiezione? "La maschera di ferro" è lo scheletro polverizzato delle trasposizioni letterarie degli anni '30 - '40, ed ha, oggi, la stessa ragione d'essere dei romanzi egiziani di Jacq; inutile, imbarazzante, inaccettabile, il film di Wallace fallisce anzitutto nel tentativo di esistere. La sceneggiatura avvilisce le qualità dell'impianto letterario, semplificando l'architettura imponente di Dumas padre in un'antologia di ridicole macchiette. Il linguaggio cinematografico perde il carattere specifico sino ad annullarsi nella piattezza dell'innocuo parlottio del video domestico, e il prodotto finale non differisce troppo dalle riduzioni televisive più becere.




Il linguaggio cinematografico perde il carattere specifico sino ad annullarsi nella piattezza dell'innocuo parlottio del video domestico, e il prodotto finale non differisce troppo dalle riduzioni televisive più becere.
Il racconto è privo di scene culminanti, si risolve in inquadrature il più delle volte non costruite, non pensate, morte e dunque incapaci di costituire una sequenza significante. Ma sono gli attori, messi insieme da una delle operazioni di casting più disgustose dai tempi de "La casa degli spiriti", a procurare lo spettacolo meno decoroso: professionisti solitamente brillanti come Malkhovic e Irons perdono la faccia prestandosi a dialoghi di ignobile fattura, piegando la recitazione ai tempi sbagliatissimi di una regia incauta; sulla prova di Depardieu è preferibile sorvolare, il francese è penalizzato dal ruolo di beone agonizzante e soffre (e fa soffrire) più degli altri; Byrne è un attore discontinuo, dunque il suo D'Artagnan rigido e ingessato non suscita più che una certa (trattenuta) ilarità. La recitazione di questi famosi cinquantenni vorrebbe forse far sfoggio di virtù, mentre in realtà si limita ad un grottesco agitarsi di chiome posticce in un clima di artificiosa solennità.
I quattro moschettieri interpretano un certo numero di scene d'azione completamente prive di mordente, risolte il più delle volte in un banale montaggio parallelo (es. Irons, Depardieu e Malkhovic raggiungono il prigioniero con la maschera; intanto le guardie del re accorrono nelle segrete per impedirne la fuga); a risultare davvero indigeste sono però le scene drammatiche (es. tutti i dialoghi Byrne-Parillaud), che evidenziano una certa fretta nel dare in pasto allo spettatore la razione standard di pathos, oltre che una qualità di scrittura e di direzione degli attori di livello infimo. Altre considerazioni suggerisce la performance di Leonardo DiCaprio, la star dal primo nome in cartellone: nel bel mezzo del proprio quarto d'ora di celebrità, l'attore americano dimostra un'inettitudine totale per la recitazione. Non tragga in inganno l'impressionante somiglianza coi ritratti giovanili di Luigi XIV; le modeste qualità interpretative non consentono a DiCaprio di avvicinare il personaggio, e tantomeno di prodursi nel gioco dello specchio per dare vita al gemello imprigionato. Replicando il cliché dell'adolescente inquieto ("La stanza di Marvin", "Romeo + Juliet", "Titanic"), l'attore finisce per identificarsi con l'effigie riprodotta su tonnellate di chincaglierie. Non sostiene adeguatamente alcuna scena, è impacciato nell'azione, si propone col solito sguardo liquido ai piani ravvicinati che patiscono una tale assenza di personalità. Nonostante tutto questo, lo straordinario bluff di Randall Wallace va comunque in porto, favorito dalle circostanze, dalla cieca fiducia dei mercanti hollywoodiani nel richiamo fascinoso dei miti d'oggi, dall'assuefazione del pubblico di massa ad un linguaggio non-cinematografico.


La maschera di ferro



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