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kiss or kill

di Luca Bandirali


Flashback: in una cucina poco illuminata, una donna ai fornelli parla con la figlia, una bambina di circa sei anni. Suonano alla porta. La donna, in vestaglia da casa, apre: un uomo le rovescia un secchio di benzina sul corpo, quindi le lancia un fiammifero acceso. La bambina vede la madre in fiamme, e si ritrae, urlando spaventosamente.

kiss or kill

Il regista

Bill Bennett, australiano di 45 anni con la faccia da ragazzo, gira con mano sorprendentemente felice un magnifico road movie, sincero ed anticonvenzionale, che rivela un talento indiscutibile, anche se finora frustrato. Piuttosto noto in patria, Bennett ha realizzato numerose produzioni a basso costo, esercitando parallelamente l'attività di documentarista televisivo; dopo l'ottima accoglienza ricevuta a Cannes '94 da "Spider & Rose", una storia di ragazzi che scappano, la Warner lo invita ad Hollywood per dirigere un film analogo con Sandra Bullock. "Ladri per amore", unico titolo di Bennett distribuito in Italia, è una cocente delusione anzitutto per il regista, che decide di prendersi una vacanza dal cinema. Intanto lavora alla sceneggiatura di "Kiss or kill", un progetto vecchio di dieci anni, con al centro (ancora una volta) una fuga. Quando decide di tornare dietro alla macchina da presa sceglie l'autoproduzione: scrive, sceglie gli attori (Matt Day e Frances O'Connor, entrambi visti in "Amore e altre catastrofi") e li dirige, con un budget di 2 milioni di dollari, il che è già un sonoro schiaffo alle prevaricazioni dell'industria.

Camera-car

Tenebrosi versi di Dylan Thomas introducono immagini di una vita difficile, quella di Nikki, la ragazza di Al. Di loro si capisce subito che stanno a galla come possono; truffare gli ingenui è un espediente come un altro, ed al cinema funziona egregiamente, come ci ricorda il vecchio Chabrol in "Rien ne va plus". Il trucco pesante della ragazza parla della sua fretta di crescere (non per scelta): tutto è maledettamente veloce, il pollo di turno è seduto al club e c'è solo il tempo di recitare la parte per bene. Alan, giovane angelo, fa la cosa giusta e il pollo cade in trappola: ora si tratta solo di alleggerirlo, ma Nikki ha esagerato con la dose di sonniferi per addormentare l'uomo che ora giace, privo di vita, sul letto di una camera d'albergo. È chiaro che per risolvere al meglio queste faccende ci vuole gente esperta, non questi ragazzi disperati. La fuga sembra l'unica salvezza: in macchina, naturalmente, sulle strade di un'Australia che è cielo e deserto. Questo film è un road-movie. Molto spesso, nella storia del cinema, ci siamo trovati di fronte ad eroi simili, perlomeno da quando Griffith, nel 1910, inventò la prima camera mobile (praticamente una cinepresa fissata all'avantreno di un'auto). Proprio in virtù di un referente mitico così forte, Bennett si permette di limitare allo stretto necessario le azioni dei protagonisti, districandosi sapientemente nella selva di elementi extratestuali che il tema procura. Certo gran parte del fascino di "Kiss or kill" deriva dalla disinvolta padronanza della grammatica cinematografica. Se è vero che in gran parte della produzione attuale è impossibile riconoscere i vocaboli del cinema classico, o comunque attribuirvi un significato, è altrettanto vero che frammenti di quella cultura sopravvivono, rigenerati, nella pratica postmoderna: Beat Takeshi, nel 1998, si serve di un movimento di macchina dolly (fondamentalmente una gru che solleva la cinepresa) proprio come Hitchcock nel 1958. A sua volta Bill Bennett utilizza il falso raccordo e la microellissi, certo senza la carica eversiva di un Godard, ma sempre nel solco di un'arte controllata e sapiente. Si veda la sequenza in cui Al e Nikki rubano l'auto dei turisti al molo: steady-cam (ovvero camera a mano) traballante, montaggio nervosissimo, raccordi volutamente approssimativi, tutto ciò contribuisce a comunicare l'idea precisa di un percorso lineare (auto da abbandonare - auto da rubare) che si frammenta nella frenesia dell'azione. Se "Assassini nati" era il punto di non ritorno dell'estetica post-moderna (la tecnica esibita), "Kiss or kill" concorre ad una ricomposizione del linguaggio cinematografico, riportando il dibattito culturale su coordinate forse pi" consuete ma di certo più interessanti.


Cosa che poi fa lo stesso cattivo maestro Oliver Stone con "U turn", pur nella magniloquenza dello stile.

Baciare/uccidere

Sembra proprio che l'ottima prova di Bennett sia il risultato di una lunga frequentazione dell'immaginario "on the road" (credo che più della metà dei suoi film si assomiglino in questo senso), e di una consuetudine con i personaggi di queste storie, col loro modo di muoversi e di parlare. Dalla penna di Bennett, prima che dalla macchina da presa, nascono casi, situazioni, dialoghi di rara freschezza; non dimentichiamoci che "Kiss or kill" è in fondo una sorta di giallo itinerante, con invenzioni d'acrobata. Dal triangolo iniziale (lei, lui, il pollo) ha origine una complessa geometria d'incontri per cui le figure di secondo piano (i poliziotti, il simpatico Possum Henry, il vecchio campione di baseball) hanno modo di emergere e di assumere una fisionomia definita; ma anche i personaggi da tre inquadrature lasciano il segno, come l'avvocato-squalo che soffia Al e Nikki ai detective, o l'idiota del motel. La sequenza che meglio evidenzia le capacità di Bennett è quella del dialogo al fast food tra i due agenti che inseguono i giovani amanti: dalla banale constatazione di una avversione alimentare ("Perché non mangi la pancetta ?"), prende le mosse una burla fantastica, una gag perfettamente chiusa, priva di conseguenze sullo sviluppo narrativo. È questo il gioco di baciare/uccidere, attirare lo spettatore nelle spire dell'intreccio, disseminare tracce verosimili, in pratica (dis)simulare. Quanto è bravo Bill Bennett!

Culto

Ci sono buoni motivi per i quali "Kiss or kill" si prepara ad una giusta cultizzazione. Anzitutto perché è il road movie è un genere votato al culto (vi dice niente "Cuore selvaggio" di David Lynch ?). Poi perché di questo genere Bennett rigetta le (cattive) abitudini più rigide. Il primo rifiuto riguarda il rock'n'roll, e se lo sapesse Wenders, che girò il suo primo film ("Summer in the city") sulle note dei Kinks, non capirebbe. Non c'è rock'n'roll in questo film, e nemmeno il country di "Honky tonk man" (un Clint Eastwood d'annata). Non c'è una sola nota musicale, a dire il vero. Al e Nikki non mettono nastri dei Rolling Stones mentre sfrecciano sulle strade assolate, e ci si accorge col procedere della vicenda di quanto questo silenzio sia necessario. Il secondo rifiuto riguarda lo stile barocco cui il road movie sembra condannato da Stone in poi: sfrondato degli orpelli insopportabili cui gli epigoni hanno eretto il monumento del Cinema Giovane (camera a schiaffo, fotografia sgranatissima, inquadrature sghembe), ritorna, appunto, lo Stile. Grande mestiere, si dirà; ma anche intuizioni geniali, come quella di trasformare il gigantesco, titanico Ayers Rock, un'unica roccia smisurata che s'adagia nello scrub australiano, in ipostasi di infinito piano-sequenza. Ci sono buoni motivi per amare "Kiss or kill".



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19 maggio 1998
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