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jackie brown

di Luca Bandirali


Immagini senza luogo

Non so se QT conosce i quadri di Edward Hopper, pittore americano di paesaggi dimenticati, strade provinciali assolate, ordinarie stanze di motel. Ad un lavoro di Hopper del 1942, intitolato "Night hawks", si ispirò Alfred Hitchcock in una celebre sequenza de "Il ladro": Henry Fonda andava a scolarsi un bicchiere di latte in uno di quei bar notturni dal bancone smisurato, dove rari uomini con cappelli a falde lunghissime tiravano tardi fissando il vuoto.
Sono passati un mucchio di anni, ed ecco un giovane, acclamato film-maker che usa i colori meditati di un Hopper di oggi: "Jackie Brown" getta le basi per il cinema figurativo dei non-luoghi. Bobby Womack canta "Across the 110th street", una quarantenne nera, in divisa da hostess, percorre a grandi passi gli ambienti di collegamento dell'aeroporto di L.A.: il lungo carrello laterale che apre il film introduce il concetto di senza-luogo. "Siamo stati ovunque. Non abbiamo visto nulla." dice Humbert Humbert in "Lolita" di Nabokov: l'America è un gigantesco contenitore di spazi che non possiedono identità alcuna, che non hanno storia né aspirano ad averne una.
È proprio l'America di "Jackie Brown": piccoli residence a corte, centri commerciali, nastri d'asfalto lungo cui si dispongono disordinatamente scatole pronto-uso in cui lavorare, abitare, comprare. Un contesto semantico davvero denso, che QT riproduce privilegiando gli interni (come l'Hopper di "Eleven A.M." del 1926), spazi da agire per un gruppo di splendidi interpreti, sottoposti ad un vero tour de force verbale.



Esercizi di stile

L'intreccio risulta complicato (traffico d'armi, vendette incrociate, denaro sporco), e ancor più per il fatto che i protagonisti, in atteggiamento pulp, parlano tranquillamente d'altro. Il regista abbandona (per ora?) il montaggio anarcoide e le infrazioni temporali che ne hanno caratterizzato lo stile, optando per uno sviluppo morbido della sequenza. Uso sistematico del controcampo, nessuna concessione al raccapriccio: qualcuno ci sarà rimasto persino male, e Tornabuoni sull'­Espresso" confessa candidamente di essersi annoiata.
Ma QT ha scritto una delle sue sceneggiature migliori, soppesando con maestria il contributo di ogni singola voce all'opera corale; il decoupage assolutamente classico non desta alcuna perplessità, anzi fuga ogni dubbio sulle qualità tecniche del regista, che in taluni casi sfodera colpi di ottima fattura (il dolly che riprende da lontanissimo l'omicidio del giovane Beaumont nel cofano dell'auto, la lunga sequenza dell'incontro notturno tra l'hostess e il trafficante d'armi). Senza tediare il lettore col riferimento al cinema poliziesco per neri degli anni '70, oltretutto sconosciuto in Italia, cui QT si ispira dichiaratamente tanto da resuscitarne l'eroina Pam Grier (interprete all'epoca di film come "Foxy brown" o "Sheba baby"), si può avanzare l'ipotesi di un percorso autoriale


ormai ben definito, con caratteristiche proprie: "Jackie Brown" è il terzo capitolo di una filmografia invidiabile e mantiene intatta la buona reputazione che il regista americano detiene presso il pubblico europeo.

Cinque invarianti

La capacità di costruire dialoghi freschissimi è rimasta pressochè inalterata, cosė come la predilezione per l'eroe dallo sguardo truce, dal viso segnato e dalla calma inattaccabile; l'autocitazione resta il vizio, forse irredimibile, di un autore eccessivamente idolatrato; si possono dunque individuare un buon numero di invarianti riconoscibili, tra cui: la disposizione ad un'ironia feroce, che sovente deflagra nella scoperta insensatezza dei gesti più estremi (in "Pulp fiction" John Travolta faceva esplodere il cervello al malcapitato Phil Lamarr del tutto casualmente, qui De Niro uccide Bridget Fonda con due colpi di pistola semplicemente perché lei lo innervosisce); l'uso massiccio di un gergo scurrile dalla presa fortissima; una passione tutta americana per le armi da fuoco, specie se belle lucide e cariche; un amore viscerale per la musica dei '70, soprattutto dance, che sta alla trilogia tarantiniana come il dixieland sta ai film di Woody Allen; una simpatia naturale per i personaggi volitivi, con le rughe dell'esperienza, quelli che "risolvono problemi" (Keitel - Wolf in "Pulp fiction", ma anche Forster - Cherry, il pagatore di cauzioni di "Jackie Brown"). La direzione degli attori è poi uno dei punti di forza di QT, che riesce sempre ad ottenere la performance ideale, al servizio del personaggio e del film; a questo proposito si vedano in "Jackie Brown" le prestazioni magnifiche di Robert De Niro e di Samuel Jackson e si mettano a confronto queste con le rispettive, deludenti prove in "Paradiso perduto" e "Sfera": si afferra così la dimensione della concreta abilità del regista. Vorace (ed onnivoro) consumatore di immagini, QT è l'imprescindibile riferimento di tutte le tendenze riproduttive dell'attuale scena americana; "Jackie Brown" è senz'altro un passo deciso nella direzione di un'arte sempre più autoreferenziale, sempre più realizzata in forma di pastiche di generi, di tipi, di (sotto)culture. Per mescolare materiali più nobili, per spostare il baricentro creativo del pianeta di celluloide ci sarebbe forse bisogno di una sensibilità differente, di un altro rigore; da ricercare più nei metaforici shoot-out di Beat Takeshi, meraviglioso cineasta d'oriente, che nelle rielaborazioni di genere alla Quentin Tarantino.




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19 maggio 1998
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