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us marshals

di Luca Bandirali


Ritorna Samuel Gerard, il combattivo marshal federale con l'aria da mastino: ha il profilo scontroso e le rughe milionarie di Tommy Lee Jones, che per questo ruolo ha vinto l'Oscar per il miglior attore non protagonista. Era il 1993, l'anno del "Fuggitivo", campione di incassi con Harrison Ford nei panni dell'innocente perseguitato e Jones in quelli del cacciatore. Di quel film, "US Marshals" è l'insolito sequel, ed introduce nella serie variazioni di non poco conto: anzitutto non contiene, neanche in apertura, richiami di nessun tipo al fortunato primo capitolo; inoltre opera un interessante controcampo investigativo privilegiando decisamente le operazioni di ricerca rispetto alla fuga; questo significa che Samuel Gerard diventa il protagonista assoluto dell'azione. Se la matrice comune delle due pellicole resta la grande lezione di Alfred Hitchcock (il tema dell'innocente che le circostanze fanno credere colpevole), è degno di attenzione il fatto che, in sede di sceneggiatura, si siano fatte scelte di segno opposto: "Il fuggitivo" risente dell'influenza di "Sabotatori" e "Caccia al ladro", lo spettatore è infatti conscio dell'onestà del protagonista e ne prende le parti; "US Marshals" invece gioca spesso sull'ambiguità dell'uomo in fuga, e si concentra sulle qualità umane dell'inseguitore.
Il film di Stuart Baird (seconda regia per lui, viene dal montaggio e ha lavorato in "Arma letale" e "Die hard 2") contiene una quantità considerevole di elementi combinati che ne fanno un oggetto post-moderno: allo stile ipercinetico dei registi di Hong Kong impostato sull'ardita coreografia come mezzo per l'estensione apicale del momento dinamico, "US marshals" oppone il gigantismo della produzione.
Saltano i limiti dell'immaginazione: volete vedere un aereo che cade in un lago? Un duello in un mare di chicchi di grano? Preferite la violenza scomposta di un corpo a corpo? C'è da chiedersi se un solo film riesca a contenere la mole di stereotipi che Baird raccoglie e rielabora, nella direzione di quelle opere che oggi anticipano il Film Unico, contenitore di tutti gli immaginari. I segni dell'appartenenza di "US marshals" alla famiglia mutante del postmodernismo cinematografico (fuori dai generi, oltre il concetto stesso di autore) sono essenzialmente due: l'oggettiva densa e il metalinguismo.
L'oggettiva densa è il modo di comunicare dell'hyper-cinema, o hi-tec: la tecnologia, assolti i compiti funzionali, si attribuisce valenze estetiche, anzi fonda un'estetica.
La scena si affolla di monitor e schermi video:


le immagini rubate delle telecamere a circuito chiuso, quelle istituzionali delle news televisive sortiscono l'effetto opposto dello straniamento, sono forme meramente esibite che preesistono come scenografia digitale alla finzione cinematografica e non mettono mai in dubbio la sincerità della rappresentazione. Jones-Gerard è in un bar con il suo staff, guardano la TV e brindano al successo di un'azione pericolosa; il telegiornale diffonde le immagini di quei fatti, e quando sul piccolo schermo appare proprio Gerard, un agente nel locale gli grida: "Sembri un attore!".
È evidente che si tratta di uno spunto metalinguistico nient'altro che seducente, costruito allo scopo di moltiplicare l'effetto-cinema, per assorbire lo spettatore nel flusso dell'azione comunicativa. Lo stesso uso ripetuto della citazione (di sequenze, stili, motivi), spogliato d'ogni velleità autoriale, allude precisamente alla tecnica del collage disimpegnato (nessuno pretende che lo spettatore riconosca "Blow up", o Sergio Leone, o quant'altro s'accumula nel film). Pensare ai suddetti procedimenti narrativi vuol dire anche conoscerne vagamente le origini, per non fare del sensazionalismo ingenuo (quello dei fans di Tarantino, per capirci): Hitchcock, ad esempio, mescolava allegramente i generi 50 anni fa (purtroppo gli epigoni che tentano di ricreare il famoso suspence del Maestro si dimenticano dell'ironia, del brio da commedia che preparava il momento del brivido), ed era perfettamente cosciente della pratica autoreferenziale se nel "Prigioniero di Amsterdam" faceva dire a Joel McCrea, appena dichiaratosi alla bella Laraine Day: "Dunque la nostra scena d'amore è già finita?". Questo è un passato che il cinema d'oggi rimastica costantemente, senza raggiungerne mai le vette espressive, ma bisogna dare atto ai signori della Warner di avere messo in piedi una cosa che supera le dimensioni consentite, laddove i cineasti di Hong Kong (quando possono) oltrepassano invece i limiti di velocità. Dunque, a prescindere dai giudizi qualitativi, "US marshals" è un segnale importante dalla fabbrica dei sogni: non sembra, ma ad Hollywood è già domani.




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18 maggio 1998
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