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marco bellocchio

2. bellocchio e il teatro

di Francesca Capobianchi


Nelle sequenze iniziali del film "Il sogno della farfalla" del 1994, la macchina da presa si sofferma a lungo su una scena che si svolge su un palco tra un giovane soldato, che sta per essere giustiziato, e chiede la grazia, e la sua amata: siamo in un teatro, ciò a cui assistiamo è un futuro film di Marco Bellocchio, il personaggio principale parlerà sempre e solo per versi di grandi poeti e drammaturghi.
Qui si condensa uno degli aspetti più interessanti della filmografia del regista: il teatro serve da animatore del suo cinema, da riserva di gesti e di parole, di profili psicologici da approfondire.
Il teatro costituisce fonte di storie cui attingere, da cui dar vita a personaggi, da banco da cui sperimentare oltre quanto è stato scritto, servendosi appunto dei mezzi cinematografici.
E allora conosciamo la vicenda de "Il Gabbiano" del 1977, tratto da Checov: dello scrittore russo sono analizzati non tanto i risvolti meta-teatrali, di cui è ricco il dramma, ma la personalità del giovane scrittore di teatro, Costantin (interpretato da Remo Girone), e il complesso rapporto che lo lega, da una parte sicuramente alla sua arte, in cui cerca di sperimentare nuove forme, ma dall'altra alle altrettanto complesse figure della madre e del "gabbiano", Nina, entrambe attrici, solo che l'una riscuote gran successo, mentre l'altra non riuscirà a sfondare.
Oltre a ciò emerge l'interesse per la dimensione onirica, molto simile al momento in cui si recita su un palco, per l'isolamento e la ricerca di comunicare in modi e forme diverse, spesso estreme.
Nell'"Enrico IV" del 1984, opera non felice, Bellocchio torna grazie al dramma pirandelliano nella dimensione claustrofobica e nella scelta sofferta e consapevole della follia. Enrico, caduto da cavallo durante una festa di carnevale, impazzisce e si fissa nella tragica maschera dell'imperatore che egli aveva scelto per travestirsi. Anche se risanato, preferisce prolungare questa finzione per quasi 20 anni. Rivelerà tale simulazione tra gli amici di un tempo che gli fanno una compassionevole visita, quando colpisce con la spada il rivale Belcredi che gli aveva portato via la donna amata, Matilde.
Emerge una personalità complessa, introversa, che fugge dalla realtà, che abolisce il tempo per recuperare nella storia, una sicurezza senza imprevisti. Il senso fantastico del rapporto con la propria simulazione penetra anche nell'idea della storia che egli svolge, fingendosi re Enrico: l'uccisione di Belcredi è il momento in cui la finzione diventa realtà e il personaggio vive il proprio dramma.



Inevitabile pensare all'ultimo film, "Il principe di Homburg": dalla finzione al sogno, dalla lucida ribellione alla ricerca di parole "che non pesino", come dice in una sequenza molto intensa Mastroianni-Enrico, cioè parole che non sappiano di parole già dette.
E il teatro è ancora il protagonista di un altro interessante lavoro realizzato da Bellocchio per la televisione, si tratta di un'altra opera di Luigi Pirandello, "L'uomo dal fiore in bocca", con Michele Placido. Anche questa riduzione per il piccolo schermo, segue fedelmente il testo teatrale, e di questo ricalca tempi e luoghi. Non si serve dei mezzi della televisione per mostrare questa storia, se non in pochi momenti, per seguire Placido in fuga dall'ombra della moglie che lo inseguirebbe, e per sottolineare con i primi piani le espressioni sofferte di un uomo destinato a morire.
Facciamo di nuovo un passo indietro e torniamo alle scene iniziali di "Il sogno della farfalla", esplicita dichiarazione d'amore del regista nei confronti appunto della poesia, dell'espressione attraverso la recitazione e dello spazio scenico del teatro.
Singolare coincidenza, o forse attestazione forte del debito che il regista contrae con Kleist in particolare, ma con il teatro tutto in generale.
Nel film si parla di un giovane attore che si rifiuta, nella vita quotidiana, di parlare con gli altri: recita solo attraverso i versi che ha imparato.
Soltanto attraverso la voce di poeti e drammaturghi, da Omero a Shakespeare, è possibile una comunicazione altra, cioè solo il teatro fornisce i mezzi per esprimersi in modo autentico: un linguaggio puro, non contaminato dalla contingenza, dai rumori assordanti, dalla ripetizione o dagli errori. E sembra che proprio alla ricerca di questo modo perfetto e cristallino, che non giunge mai a compromessi con la realtà, che mostra una scelta estrema, audace e forse superba, Bellocchio continui ad usare il teatro come contrappunto per i suoi film.




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11 dicembre 1997
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