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marco bellocchio

1. intro

di Luca Bandirali


Sappiamo quanto il concetto di tempo nelle maglie giganti del WEB sia sottoposto ad accelerazioni violente ed incontrollabili, e in che misura il materiale circolante implementi costantemente la propria configurazione magmatica; in seno a tale caos si moltiplicano i mistificatori e, a ben guardare, l'orgiastica offerta di comunicazioni planetarie si riduce, per il navigatore esperto, ad una manciata di indirizzi sicuri.
STRANI GIORNI è in viaggio da un anno, su queste rotte, per contribuire al sempiterno work-in-progress della critica cinematografica, ed è mia convinzione che il problema principale risieda nel giusto coesistere dell'IDEA (il progetto di una critica) e del MEZZO (con caratteristiche distintive che necessitano di speciale considerazione).
Fondamentalmente non credo che esista ancora un linguaggio del WEB, anzi temo che il crogiolarsi nelle fascinazioni del mondo INTERNET da parte degli operatori sortisca l'effetto indesiderato di depotenziare il mezzo stesso. Le schiere di adepti del Nuovo Rito Mediatico sembrano infatti recepire in modo acritico il codice espressivo dei surfers, replicandone da ogni angolo del globo la forma (le home page, gli interfaccia utente); dimenticando che le informazioni sono altrove!
Il gioco di "esserci", semplicemente, non mi interessa affatto: in STRANI GIORNI il mezzo non conforma il linguaggio, in primo piano c'è la ricerca di uno stile, di un modo. Parlare di cinema in rete, dunque: parlare di immagini (in questo numero parlare "con le immagini"), perché è necessario...
STRANI GIORNI non è un bazar colorato che accoglie l'utente con un jingle festoso, ma è piuttosto un piccolo laboratorio in cui si combatte la DISTRAZIONE, potente virus postmoderno che contamina lo sguardo di tutti noi spettatori dell'Oggetto Indistinto (perché chiamarla ancora Arte?).
Questi intenti, che non si possono pretendere chiari, né elaborati in forma di teoria organica ("Codesto solo oggi possiamo dirti / quello che non siamo, quello che non vogliamo" scriveva Montale), hanno generato una rivista che compie già un anno di vita: un anno di scintillanti visioni, e di ricerca (quasi) incessante della materia disomogenea con cui comporre l'edificio solido della critica di STRANI GIORNI.
Credo comunque che con l'attuale aggiornamento della rivista si concretizzi una parte consistente delle intenzioni di questa redazione: ci proponiamo infatti di individuare dei nuclei tematici che favoriscano la lettura di un percorso complesso e articolato, ma nello stesso tempo coerente, per nulla schiavo delle tendenze.
Il lavoro realizzato per questo numero di fine '97 è dedicato a Marco Bellocchio, un grande solitario del cinema italiano. Solitario nella definizione di una propria poetica, animato dalla costante aspirazione al controllo totale del lavoro cinematografico. Le parole di Bellocchio, che abbiamo incontrato ad una proiezione per le scuole del "Principe di Homburg", rappresentano il sigillo ad una fase di crescita, di spostamento di senso di STRANI GIORNI.



La vicenda esemplare di un maestro del cinema costituisce una grande ricchezza cui attingere le conoscenze di base per indagare la dimensione dell'Autore (in tempi di produzione standardizzata può sembrare anacronistico riproporre la figura del Faber, penso tuttavia che sia doveroso riconoscere e celebrare il talento, almeno finché non saremo militarmente occupati dagli Studios, con gli Emmerich, i Levinson, ecc...). Non credo sia necessario ribadire la centralità di Marco Bellocchio nell'ambito della cinematografia italiana degli ultimi trent'anni, centralità che nessuno è ancora riuscito a mettere in discussione: certamente non i critici paludati come Tullio Kezich (il quale, con la consueta miopia, avversava Bellocchio negli anni '60, mentre lo incensa oggi), non i giovani autori, incapaci di sottrarsi ad una mediocrità che è generazionale (per cui l'aspirazione ad "uccidere i padri", che aveva animato i filmmaker degli anni '60, da Godard a Bertolucci, ha lasciato il posto ad una passiva accettazione dell'establishment). Ancora oggi guardo i suoi film con rinnovato entusiasmo, trovando miracolosamente intatta la loro traboccante energia; e a chi non conosce l'opera di Marco Bellocchio consiglio vivamente la visione intanto degli episodi più noti: "I pugni in tasca", la prima regia, film teso e distruttivo il cui impatto sulla società rimanda senz'altro ad un esordio letterario altrettanto fulminante, "Gli indifferenti" di Alberto Moravia; "Diavolo in corpo", il lavoro in cui la ricerca sui tempi dilatati del piano-sequenza raggiunge risultati di rilievo assoluto.
Ascoltando Bellocchio, guardando i suoi film, ci si trova di fronte ad un artista attento, rigoroso, consapevole; della conversazione con il regista (che affronta temi quali il linguaggio cinematografico, la messa in scena della Storia, l'uso dell'elemento onirico) si offre qui al lettore un ampio resoconto curato da Valentino Faticanti, nonché un breve estratto video realizzato da Ernesto Caiola.
In questo momento, con questi mezzi, credo sia importante, come accennavo in partenza, scoprire il gioco dei mistificatori, dando il maggior risalto possibile alle differenze di peso specifico tra i principali attori del dibattito culturale. Un esempio? Direttamente dal Festival del cinema di Courmayer, Dario Argento regala ai cronisti questa perla: "Con una sola idea, Antonioni ha girato venti film".
Dario Argento, presuntuoso mestierante con un brillante futuro dietro le spalle, quell'idea non l'ha mai avuta, e la pochezza, la pretenziosità del suo cinema degli ultimi 15-20 anni dovrebbero tenerlo lontano dalle alte sfere del confronto intellettuale, se non altro per evitare il delirio.




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11 dicembre 1997
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