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Kundun
stellastellastella
di Francesca Capobianchi


La tensione religiosa, la dimensione spirituale, hanno sempre fortemente condizionato Martin Scorsese, che è il poeta della vita del sobborgo, della malavita mafiosa, della little Italy di New York.
Di nuovo, dopo esseresi mostrato in Casinò in tutta la sua disillusione per il meccanismo cinematografico, abilmente descritto, nei suoi occhi gelidi, di una fredda coscienza della vita (ricordiamo un sorprendente cortometraggio, The Big Shave del 1967, spietato e fulminante, in cui un uomo si rade fino a sfregiarsi il volto e inondare il lavandino di sangue), negli occhi di colui che ha sempre cantato l'inferno sulla terra, ritorna la luce della speranza, della comprensione, dello spiritualismo. Ed ecco che si cimenta in una lunghissima biografia del Dalai Lama che ha retto il Tibet negli anni in cui è stato attaccato dalla Cina e ha perso la sua indipendenza. Tutto inizia da quando Kundun è piccolo, e perché noi non perdiamo neanche i primi vagiti dell'uomo più buono della Terra, lo seguiamo quando è a pranzo, quando mostra i primi segni della sua eccezionalità, quando a stento sopporta l'autorità di altri. Lo accompagniamo a Lhasa, tra i mille rituali tibetani, da cui non soltanto noi, ma anche Scorsese non può essere più lontano. E si vede.
Perché di Kundun quello che rimane a noi occidentali, oltre all'immagine stereotipata degli abitanti avvolti in scintillanti tuniche porpora, che recitano nenie da pubblicità delle caramelle balsamiche, è un ragazzino curioso, assetato di conoscenza e di comprensione, un giovane attratto da quello che si può guardare.
Insomma Kundun può essere una variazione sul tema dell'uomo che guarda: viene sempre sorpreso a rubare con il cannocchiale scene di vita del suo popolo; indossa occhiali a dispetto delle tradizioni di chi gli è attorno; si fa sfuggire un eccessivo interesse per le scarpe di Mao,


e magari meno per i meschini giochi politici che porteranno all'assimilazione del Tibet. Kundun è colui che comprende, che deve alleviare le pene dei suoi concittadini, Kundun è colui che ha lo sguardo privilegiato sul suo popolo, perché quasi scelto dal Destino.
Non ricorda potentemente quel piccolo italoamericano che si costruiva giocattoli con dei disegni che poi faceva scorrere come su uno schermo? Sì insomma è sicuramente una figura affascinante questa dell'ultimo Dalai Lama, che mostra una realtà sconosciuta o misconosciuta, ma che forse aveva bisogno di un approccio più politico, e meno incantato.
Poco tempo fa Annaud si è interessato al Tibet , con un film brutto e sostanzialmente inutile, anche se era da riconoscergli l'onestà di aver filtrato quella cartolina illustrata da un occidentale.
Scorsese invece si serve del mito del momento, protetto da tante star americane, per continuare a guardarsi guardare.
Solo che la noia è inevitabile, ed inevitabile anche un senso di fastidio per queste culture ora tanto di moda, ma che non so se riusciremo mai a capire.


KUNDUN
di Martin Scorsese
USA 1997


Produzione: Touchstone Pictures
Scritto da: Melissa Mathison
Interpreti: Tenzin Thuthob Tsarong, Tenzin Gyurme Tethong, Taulku Jamyang Kunga Tenzin
Musica: Philip Glass
Durata: 133 min.


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18 maggio 1998

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