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Il paziente inglese

di Francesca Capobianchi


Sul finire della Seconda Guerra Mondiale in un casale diroccato della Toscana, una infermiera cura uno sconosciuto pilota abbattuto nel deserto del Sahara, con il volto sfigurato, in fin di vita. Scopriamo attraverso i suoi ricordi, e le richieste di un altro misterioso reduce dal deserto, Caravaggio, che si tratta di Almashyn. Era un cartografo ungherese che in Africa si era innamorato della moglie di un suo collega e per amore aveva tradito il suo paese. La storia dell’infermiera Ala, si intreccia a quella di un capitano indiano accorso in quel casale per disinnescare bombe lasciate dai tedeschi.



Un paziente senza memoria e senza nome e una infermiera convinta di dare un senso alla sua vita, si rifugiano in un casale molto tranquillo in Toscana, dipanano le loro storie e riscoprono se stessi. E’ un luogo che permette loro di trovarsi e di dare una direzione alle loro storie: il pilota, può morire, l’infermiera può amare e avere fiducia nel futuro.
Il film stesso si apre con i titoli di testa su un luogo, che sembra un foglio su cui vengono tracciati dei corpi, ma si rivela poi essere un paesaggio: il deserto. Il deserto è un personaggio del film: è qui che nasce la travolgente passione d’amore tra il cartografo e la moglie di un suo collega; è qui, nel luogo del possibile che scatta la scintilla dell’amore. Nel deserto dell’anima di un uomo senza nazionalità (lavora per l’Inghilterra e sarà costretto ad odiare la sua provenienza e il suo nome troppo ungherese) si trova l’amore che non è altro che un toccare, uno scoprire, un tracciare territori, paesaggi, linee: l’amore è segnare dei confini, è individuare una "fossetta del Bosforo", è reclamarne il possesso. E l’identità di una persona nasce dalla riscoperta definizione dei suoi limiti, nell’amore per la propria geografia e dell’amante; una persona si forma nelle linee tracciate sul "corpo" (ma cosa è il corpo, un altro paesaggio?) dell’altro. Del resto un cartografo è per eccellenza colui che segna confini, la cui identità si forma in un luogo.

Almashyn, morente e determinato a dimenticare la sua geografia, il suo nome, cioè quello che significa e quello che è significato, il suo passato, il suo amore, è costretto in un altro luogo, il luogo della memoria, da un interlocutore per cui passato vuol dire essere menomato fisicamente, a ritrovare il suo nome. Si riscopre nelle pagine del più grande storico della Grecia, Erodoto, deserto, caverna piena d’affreschi, cielo da solcare con un aereo costato tradimento (ma di che, a quale territorio apparteniamo?) e infine "fossetta del Bosforo". Nella geografia della sua memoria quel paziente, in cui inglese è un aggettivo che non aggiunge nulla alla sua condizione ("rimane pur sempre un paziente" ammonisce lo stesso Almashyn nel film), acquista un volto, non più fantasma, ma essere umano che ha da insegnare che il senso della sua esistenza. Ecco, tutto questo non vuol dire che "Il paziente inglese" sia un bel film, anzi. Minghella non osa mai, non esce mai da quelli che sa sono i confini ( ironia della sorte: intrappolato dai suoi stessi limiti! Sarebbe stato troppo vedere una analogia tra il lavoro di Almashyn e il suo: analogia che richiede un superamento insperato; forse una "utopia", intesa proprio come "non-luogo") del bel drammone strappalacrime, ben confezionato, non eccede nella patinata trasposizione di un bel romanzo. Non va oltre e, misuratissimo, costruisce un prodotto di sicuro successo, con fotografia, attori, musiche ottimi, certo di poter ottenere dei riconoscimenti. Ci è riuscito.


IL PAZIENTE INGLESE
di Anthony Minghella
USA 1996

Regia:Anthony Minghella
Sceneggiatura: Anthony Minghella
Produzione: Miramax
Interpreti:Ralph Finnies, Kistin Scott-Thomas, Juliette Binoche, Willem Dafoe
Fotografia: John Seale
Durata: 165 min.



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16 febbraio 1997
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