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Shine

di Francesca Capobianchi


«Devi domarlo il piano, David, é un mostro!»
Questa frase risuona possente nel secondo tempo del film di Scott Hichs; la urla un professore del Royal College of Music di Londra al giovane pianista David Helfgott.



La storia è quella del pianista australiano, ancora in vita, dall’infanzia attraverso l’adolescenza, fino alla maturità, tra l’esaltazione e la forte passione per la musica instillatagli dal padre, autodidatta autoritario, tra l’amore per il pianoforte e la sofferenza che questo può causare.
La psicologia del giovane David si delinea piano piano, in maniera molto incisiva, con la selezione di alcuni particolari periodi della sua vita e del suo tormentato rapporto con il genitore e con la musica.
Sin da piccolo costretto a confrontarsi con tutte le difficoltà della musica, il giovane Helfgott, incitato dal padre, viene spinto verso l’autore Rachmaninoff, la cui musica è esaltante, struggente, difficile da dominare, molto enfatica (che doveva essere la protagonista del film, e in realtà si sente ben poco).
Qui si incaglia David, e qui mi vengono in mente alcune analogie con il film.
David perde le proprie facoltà, diventa incapace di continuare a suonare.
Hichs, fortemente lanciato verso questa storia, che, si sente, lo entusiasma, rischia di esserne divorato.
Anche un film è un mostro, proprio come la musica che a tutti costi David vuole suonare. Questa storia che Hichs vuole a tutti i costi raccontare presenta numerose insidie.
Innanzitutto rischia di apparire troppo presuntuosa: come la sinfonie di Rachmaninoff, sono il contrasto tra ciò che può suonare la mano sinistra e la destra, così un film è il contrasto dialettico di storia e senso. Qual è il rischio, qui? A cosa mira questa rappresentazione?
Sicuramente a presentare situazioni psicologiche cariche di pathos, un soggetto molto commovente, il tutto con non trascurabile senso per l’immagine: dal punto di vista visivo alcune scene si presentano ricche e cariche di tensione. Però il regista lo sa e indulge, forse un po’ furbescamente, rendendole patinate, esaltanti, a volte patetiche, suggestive. Immagini che, però, non rimandano poi ad un altrettanto emozionante significato.
La sensazione che rimane al termine è quella di avere assistito ad un enfatico video clip, una struggente parabola, a cui però manca lo spessore, la struttura e la profondità di un film.
Perché particolari inquadrature? Perché la ricerca forzata del lirico?
Ho l’impressione che nella travagliata storia del pianista, Hichs si sia fatto travolgere tanto, da non sapere più neanche lui perché caricare tanto le figure, a dire il vero un po' stereotipate, del padre, per esempio, o dell’astrologa, (che salverà, alla fine del film, David, sposandolo), perché selezionare alcuni tratti e non altri; lasciando alla fine un senso di sostanziale inutilità.
Ci si aspettava di più da questo osannato e premiatissimo regista australiano.


SHINE
di Scott Hichs
Australia 1996

Regia: Scott Hichs
Sceneggiatura: Jan Sardi
Produzione: Jane Scott
Interpreti: Goffrey Rush, Noah Taylor, Alex Rafalowicz/David, Armin Mueller Stahl/il padre, Sir John Gielgud/il professore, Lynn Redgrave/Gillian
Durata: 100 min.



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16 febbraio 1997
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