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Nirvana

di Luca Bandirali


Qual è il cinema che ci attende? Questa è probabilmente la domanda che gli spettatori più accorti si pongono in un periodo in cui lo schermo non fa che rimandare strane visioni. Avrete senz’altro sentito parlare della cosiddetta "morte dei generi" a proposito del cinema contemporaneo: succede che quello che vediamo non rispetta più le regole di genere, e allora, per esempio, un concitato road-movie alla "Getaway!" può popolarsi da un momento all’altro di terribili zombies e trasformarsi in una sarabanda grandguignolesca (sto parlando del film "Dal tramonto all’alba" di Robert Rodriguez). Diventa sempre più difficile assegnare al prodotto cinema un’etichetta di genere; la sovrapposizione di stili, il gusto della citazione paradossale, sono tutti elementi propri della mutazione genetica in atto. Questa vitalissima contaminazione è alla base del progetto "Nirvana", che nasce e si propone come rappresentazione del crocevia di linguaggi e di colori di un futuro possibile. In un panorama poverissimo di idee ed iniziative come quello italiano, Salvatores ci appare in verità un alieno: è un regista di successo, ha girato sette film, ha creato un gruppo di lavoro solidissimo ed ha vinto pure un Oscar... e ora si mette d’un tratto a sperimentare.
Da tempo ("Blade runner" ne è un fulgido esempio) i cineasti ci aiutano ad immaginare il mondo in cui vivremo; per Salvatores lo scenario del futuro è soprattutto occasione per riflettere sulle questioni di sempre, e il pianeta Terra che ci fa vedere è un luogo totalmente urbanizzato, un continuum metropolitano stratificato, leggibile geograficamente attraverso la divisione Nord/Sud. Dai grandi problemi della popolazione mondiale (criminalità organizzata, povertà, violenza, militarizzazione) ai grandi problemi dell’individuo (una solitudine cosmica), il regista italiano non manca di ritrarre, con mano più o meno felice, i disagi della società del futuro. "Nirvana" ha una struttura narrativa complessa e si compone di due livelli principali, paralleli e tra loro strettamente legati. Il primo è costituito dalla vicenda di un uomo (interpretato da Cristophe Lambert) che realizza videogames per una multinazionale giapponese, il secondo è quello del videogame NIRVANA, la nuova creazione di Lambert.



Il videogame ha un’importanza capitale ed è il centro motore di tutte le azioni del film: il buffo protagonista del gioco è Diego Abatantuono, qui alle prese con killers ipertecnologici, trafficanti di organi e mafiosi giapponesi. Visivamente il gioco NIRVANA ha una resa prodigiosa: la fotografia sgranata, le lenti azzurre dell’attore milanese, la ripetizione ossessiva di azioni e reazioni, sono alcuni degli ingredienti di un riuscito insieme.
Il problema sta piuttosto nella repentina presa di coscienza del nostro eroe virtuale: infatti Solo (nome che ricorda lo Han Solo di "Star wars"), scoperta la propria condizione di non-esistenza, o se preferite di tragica irrealtà, chiede al padre Lambert di essere cancellato dal gioco.
E’ questo il passaggio chiave del film di Salvatores, il segmento che ne decide le sorti: in una manciata di sequenze egli deve convincerci della nascita, in Solo, di un Io-pensante talmente lucido e deciso nelle proprie determinazioni da generare il dialogo con l’essere reale che ne controlla il destino.
Deve poi convincerci del fatto che il creatore del videogame prenda così a cuore le sorti di Solo da intraprendere un cammino costellato di rischiose avventure, che è esattamente l’oggetto del racconto filmico.
Questo momento cruciale di "Nirvana" aveva a mio giudizio la assoluta necessità di una cura che Salvatores ha evidentemente profuso altrove; ma a traballare è l’intero edificio del racconto. L’ironia facile, a tratti amara di Solo nuoce inevitabilmente alla credibilità di un regista che vuole dirci tante cose profonde, aprire le porte della percezione e mostrare il mondo com’è a chi preferisce non vedere (vedi la scena dell’armadio-finestra dell’universo con Abatantuono e Amanda Sandrelli).
Il film poi ha altri (non lievi) difetti: il voler riempire lo schermo di tutto il sapere e il sentire dell’uomo è una scommessa troppo ambiziosa anche per il regista di "Sud", che scivola in uno spiritualismo di maniera quando la vicenda si sposta a Bombay city, nella frazione più debole dell’intera pellicola.
Qualcuno dirà che il fascino di "Nirvana" è proprio nel suo barocchismo, nel tentativo sovrumano di contenere tutti gli immaginari possibili. Personalmente, al di là della suggestione della bella neve digitale (che mi ricorda tanto la neve dei racconti di Joyce e Hubert Selby Jr), al di là di un Sergio Rubini in stato di grazia, a me rimane negli occhi la meravigliosa sequenza del "volo" di Cristophe Lambert in rete, il suo ingresso in un’inaccessibile banca dati rappresentata (geniale!) come un corridoio Kubrickiano disseminato di porte dietro cui si annidano angosce vere e distruttive.
Il movimentato finale cerca poi di riassumere un discorso molto sfaccettato: Salvatores ci dice che possiamo desiderare di essere ovunque, e perfino desiderare di non essere, se davvero abbiamo perduto il senso del nostro stare al mondo.


NIRVANA
di Gabriele Salvatores
ITALIA 1997


Regia: Gabriele Salvatores
Interpreti: Christophe Lambert/Jimi Diego Abatantuono/Solo sergio Rubini/Joystick Stefania Rocca/Naima
Fotografia: Italo Petriccione
Durata: 119 min.



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14 febbraio 1997
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