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ATTRAVERSO LE APPARENZE: conversazione con Giuseppe Piccioni
di Renato Chiocca


Affetto verso i personaggi, il cinema di Giuseppe Piccioni non è un cinema emotivamente distaccato, ma l'incanto non ne è il protagonista. Caldamente disincantato e ansioso di scoprire tutto ciò che i personaggi possono fare nella dimensione filmica, Giuseppe Piccioni autore emerso nel 1987 con "Il grande Blek", da spazio all'imprevedibilità dei comportamenti dell'uomo della strada. La forte caratterizzazione dei personaggi è il punto di partenza dal quale Piccioni traccia i suoi percorsi narrativi divertendosi nel costruire secondo il senso comune e nel decostruire secondo la sua personale sensibilità. Come i personaggi di tutti i suoi film, da "Il grande Blek" a "Cuori al verde", da "Chiedi la luna" all'ultimo "Fuori dal mondo", che raggirano le uniformi e ingannano la forma la sfida di Piccioni, quasi sempre vinta, è quella di spogliare una certa tematica, che sia esistenziale, sociale o intimista, dal luogo comune della prevedibilità e impietosità della trattazione del problema, per rivestirla di originalità e spesso di divertita eccentricità strumentalizzando l'iconografia di personaggi troppo spesso già nati e morti prima di essere girati. Un film non è come si presenta, ma come si rappresenta, un gioco delle parti con pedine pronte ad essere rimescolate fra di loro e dove l'apparenza, la posizione sociale sono attraversate da un'umanità inventata ma coraggiosa e rappresentativa.


RC: Con "Fuori dal mondo" prosegui il tuo percorso personale di confronto tra personaggi, che già iniziava con "Chiedi la luna", allontanandoti sempre più dallo sguardo corale lungo nel tempo dell'opera prima "Il grande Blek". Preferisci ora identificare meglio il presente piuttosto che il passato?
Giuseppe Piccioni: "Faccio un po' fatica a pensare che i miei film, al di là della valutazione di ognuno, possano essere stati soltanto generazionali. Ne "Il grande Blek" i ragazzi vivevano quel periodo come il loro presente. In "Chiedi la luna", c'era la sottotrama dell'apologo amore-denaro, un po' come "Cuori al Verde". Forse l'aspetto che è più presente in "Fuori dal mondo" è che non essendo una persona completamente consolidata nel panorama del cinema italiano, mi sentivo spinto verso una maggiore ambizione, non solo tematica, ma anche di confronto con collaboratori di alto livello, ma soprattutto ho la sensazione anche questa volta di aver fatto un opera prima con tutta la passione del gioco di squadra, e con ovviamente un miglior rapporto con il produttore, anch'egli affezionato al film".
RC: Quindi hai avuto un interlocutore con cui maturare la lavorazione del film...
GP: "È vero è stato fondamentale, poi credo che la maturità sia anche anagrafica...sicuramente questo è un film dove è più forte l'accento col disagio, un elemento meno autobiografico e più presente nel modo di vivere; siccome è stato un po' esorcizzato dai modelli televisivi che ci sono proposti, volevo fare un film in cui il disagio ci fosse e non cercare comunque di emozionare attraverso una storia".
RC: Tu hai partecipato alla serie Alfabeto Italiano, con il film di montaggio "Le parole del cuore", un modo particolare di avvicinarsi alla televisione...
GP: "Ho trovato divertente lavorare con il materiale d'archivio, scoprire delle immagini, montarle cercando di seguire un filo, un lavoro relativamente personale. Io non credo di fare dei film particolarmente ermetici però attraverso un tentativo di rivolgermi ad un pubblico cerco di mantenere un punto di vista personale. La televisione ti chiede al contrario di azzerare tutto questo, di lavorare su dati statistici, una medietà che viene mal sfruttata, perchè sarebbe interessante vedere un film per la televisione da Nanni Moretti o da Corsicato...".
RC: Importante è "L'assedio di Bertolucci", un esempio innovativo e personale di far televisione...
GP: "Ecco ci vorrebbe l'occasione di un nuovo territorio, in questo senso sarebbe stimolante. Si può fare del cinema in televisione, in Inghilterra ad esempio fanno cose molto diverse dalle nostre, ma la situazione non è delle migliori, perchè perfino un bell'esperimento come l'Heimat italiana (la miniserie "La vita" che verrà prodotta da raidue, N.d.R.) di Pozzessere è stato meramente sottoposto al ricatto dell'audience".
RC: Tornando al film, tematicamente il tuo è un cinema di ricerca, ne "Il grande Blek" era fondata su una generazione e la sua maturazione, in "Chiedi la luna" sulla scoperta dell'altro, mentre in "Fuori dal mondo" si tratta di definizione interiore. Cosa determina questo cambiamento?
GP: "Io credo di fare delle storie che non sono mai autoevidenti, non c'è un essere o un argomento centrale con la cui esposizione il film si concluderebbe. In genere mi piace definire i personaggi e poi farli trovare in una zona franca dove il loro travestimento cade e quindi diventano persone; in "Fuori dal mondo" quasi ci dimentichiamo delle figure della suora e del lavandaio perchè tradiscono i loro abiti, ciò che la loro immagine superficialmente ispirerebbe...
 
...I personaggi cambiano e la cosa che mi affascina di più è la loro possibilità di non essere così come ce li aspettiamo".
RC: Costante è l'uso che fai degli attori. Margherita Buy c'è in quasi tutti i tuoi film, ma anche caratteristi come Stefano Abbati (l'uomo che fa jogging, N.d.R.) o Riccardo di Torrebruna (Gianfranco, N.d.R.), si ritrovano con piacere. Qual è il tuo rapporto con gli attori e il lavoro che intrattieni durante la lavorazione del film?
GP: "Mi piace molto lavorare sui personaggi secondari, la vicenda principale respira anche perchè c'è intorno il volto giusto. Curiosità verso altri attori l'ho sempre avuta, come le giovani Maria Cristina Minerva (Esmeralda, N.d.R.) e Carolina Freschi (Teresa, N.d.R.), ma l'unica che resiste è Margherita di cui ho molta stima, proprio come Silvio Orlando. Con loro abbiamo cercato di superare l'interpretazione media, colorando con maggior sfumature i personaggi e differenziandoli dalle loro precedenti prove. Mi appassiona anche pensare a piccoli ruoli per delle brave attrici come Marina Massironi e Giuliana Lojodice".
RC: Che ruolo hanno gli attori nella stesura della sceneggiatura?
GP: "Pur avendo lavorato cinque volte con Margherita, l'idea di chiamarla è venuta successivamente, comunque il momento in cui interviene l'attore è fondamentale, un momento di grande collaborazione e spesso di riscrittura... Poi sai la regia non è tanto dire cosa deve fare un attore, è più un lavoro di sottrazione, di aggiunte e suggerimenti, una specie di sorveglianza guidata perchè poi l'attore porta il suo, la sua valigia come dice De Gregori e tutto quello che è già caratterizzato in fase di definizione esteriore, come gli occhiali e il completo di Silvio o l'abito da suora, deve essere tutto alleggerito nella recitazione".

RC: Altra caratteristica dei tuoi film passati è il racconto di storie ambientate nella provincia del centro Italia. Con "Cuori al verde" estremizzando sei arrivato a Roma, ma come è stato l'approccio insieme al direttore della fotografia con l'insolita ambientazione milanese per "Fuori dal mondo"?
GP: "Roma è una città molto stimolante però dopo senti il bisogno ti trovare nuovi paesaggi. Milano l'ho vissuta come città europea e sicuramente il personaggio di una suora è più anomalo in una città che non sia Roma, fuori quindi dall'atmosfera giubilare. Milano invece dà più modernità alla storia, che già in partenza si prestava ad essere ambientata in una grande città. Decisivo è stato il contributo di Luca Bigazzi nel restituire una certa idea di Milano, non fatta di splin e stilisti, ne immediatamente riconoscibile geograficamente. La città rimane uno scorcio, una luce che sta addosso ai personaggi senza mai essere invadente ma che aiuta a esternarne l'animo di opacità".
RC: Questa atmosfera di solitudine e opacità è di tanto in tanto interrotta da piccoli quadretti lieti che non seguono la linearità narrativa del racconto e trasformano lo spettatore in referente. Non è la prima volta che i tuoi personaggi si rivolgono verso la macchina da presa...
GP: "È vero già nel finale di "Chiedi la luna" il personaggio di Margherita guardava lo spettatore aprendo il finale a varie possibilità d'interpretazione. Questi gruppi in posa, che all'inizio non sono molto chiari, mi lasciavano libertà nel non raccontare la storia di solo due personaggi e nell'introdurre una visione alternativa al ruolo quotidiano dei personaggi, una visione non reale di un possibile stato di grazia, una piccola infrazione... ecco spero che le infrazioni aumentino nei prossimi film".



RC: Com'è la tua mente da regista quando pensi di volerti avvicinare ad una storia che poi diventerà un tuo film?
GP: "È molto strano perchè, posso solo dirti come è nata quest'idea: tantissimi anni fa parlando con degli amici dissi che mi interessava il personaggio di una suora. Poi al film, che non è prettamente la storia di una suora, si inseriscono dalle cose che ti accadono alle letture, a una sorta di rincorsa di un'intuizione che cerchi di avvicinare, è per me un processo anche troppo lungo, infatti penso che qualche volta mi dedicherò a sceneggiature di altri, così evitando di convivere con queste idee, con questi pensieri, mi divertirò a pensare solo alla messa in scena, un modo se vuoi di vivere in maniera più dolce questo mestiere".



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6 aprile 1999
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