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sullo schermo, la storia

di Luca Bandirali


"Appena formata, la pelle della Storia cade in pellicola." Sono parole di Andrè Bazin, il grande maestro della critica francese. Tra il racconto storico e il racconto cinematografico esiste un'attrazione naturale: la Storia, questo modo di essere e di operare del pensiero rigoroso, ha conosciuto nelle diverse generazioni di film­makers numerosi appassionati ed esegeti, ed ha indagato a fondo le facoltà del più vitale medium della rappresentazione. Si pensi ad autori come Roberto Rossellini, che fin da "Paisà" sviluppa coerentemente un'idea di spettacolo divulgativo/didascalico, o come Jean Marie Straub, che opta invece per la ricostruzione filologica del fatto figurativo. L'attuale momento del cinema internazionale testimonia un rinnovato interesse per la materia storica: l'impatto di un film come "Schindler's list" sul pubblico è il prodotto esemplare della combinazione di un'organizzazione sistematica della memoria con la potenza evocativa del linguaggio cinematografico. Non è detto che tornare a confrontarsi con la dinamica della Storia sia la ricetta unica per l'arte ("La tregua" di Rosi ha messo in luce il rischio più grande del cinema della memoria, quello di togliere respiro alle immagini privilegiando l'apparato retorico); d'altra parte sembra essere questo il terreno più ricco di incontri stimolanti, di opportunità narrative inedite.
A conferma di quanto detto, una scorsa ai titoli più importanti distribuiti in questo periodo nelle sale italiane restituisce l'impressione di un cinema che, in molti modi, mette in scena il passato. Martin Scorsese si cimenta nella biografia spirituale del Dalai Lama, Steven Spielberg analizza un momento­chiave della travagliata vicenda dei neri d'America, mentre Nanni Moretti continua l'esperienza del memoriale, pur distanziandosi da un lavoro irripetibile come "Caro diario".

Nanni Moretti : Io, nella mia immagine intricata
Tiene i ritagli di giornale ordinati per temi (per esempio "Persone orrende", o "Polemiche inutili"); a volte desidera "litigare con qualcuno", disperatamente; soffre di crisi d'ispirazione, cerca con fatica la direzione da prendere; diventa padre, e nella nuova dimensione familiare si concede un'inedita dolcezza. Questo è il Moretti di "Aprile", film tanto personale da apparirci universale, tanto frammentato e discontinuo da raggiungere un'apprezzabile coesione delle parti: Moretti, negando(si) l'opportunità della fiction, accumula i dati di un'autobiografia densa, focalizzando i punti fermi del proprio percorso. Senza avvertire la necessità della scansione episodica di "Caro diario", il regista dispone nell'ordine cronologico i fatti della vita, ricordando la lezione di Pasolini, secondo il quale "il cinema esprime la realtà con la realtà". Non si tratta di celebrazione autoindulgente, di gesto narcisista: semplicemente, l'autore prende coscienza di sé, ed è questa l'unica certezza che afferra. Moretti vorrebbe tanto raccontare l'Italia di questi anni attraverso l'indagine documentaristica, proprio sulle orme del Pasolini di "Comizi d'amore": le riprese mostrano invece una distanza incolmabile dal luogo dell'azione, l'uomo con la macchina da presa si nasconde, nella piazza gremita non vede che una distesa d'ombrelli, non si avvicina.


Capisce che lo spazio pubblico della società atopica è diventato ormai quello davanti a ogni televisore che c'è nelle nostre case. Per cogliere il senso del nostro tempo, sembra dirci Moretti, non si può andare per comizi. E nemmeno lo appaga il mestiere dell'arte, l'appartenenza al paese dell'immaginazione; la stessa diffidenza manifestata nei confronti del cinema­veritè viene trasferita poi alla messa in scena tradizionale: il musical sul pasticcere trotzkista nell'Italia degli anni '50 rimane l'idea di una cosa. "Aprile" è invece il mobilissimo autoritratto, perfettamente (in)compiuto, del più grande regista italiano.
Steven Spielberg : la macchina del tempo
"Nel 1517 padre Bartolomè de Las Casas provò grande compassione per gli indiani che si sfinivano nei laboriosi inferni delle miniere d'oro delle Antille, e propose all'imperatore Carlo V l'importazione di negri che si sfinissero nei laboriosi inferni delle miniere d'oro delle Antille. A questa curiosa variazione di un filantropo dobbiamo infiniti eventi..." Così scrive Borges nella sua "Storia universale dell'infamia", e siamo tentati di aggiungere alla concatenazione di eventi accennata dallo scrittore argentino anche questo "Amistad", nuovo lavoro di Spielberg. Sempre meno interessato (per sua stessa ammissione) alla fantasia pura di cui è stato insuperato alfiere, il regista americano risponde al richiamo della Storia, consapevole della difficoltà maggiore di un'operazione di tal genere: ottenere l'equilibrio tra le esigenze dello spettacolo e l'esattezza della rappresentazione. "Amistad" realizza tale bilanciamento senza fare uso di artifici narrativi seducenti, affidandosi ad uno stile che contiene (e restituisce) un intero secolo di sapere cinematografico. Spielberg, inimitabile inventore di smisurate architetture dell'immagine, questa volta mette in mare un veliero che non compete certo, per stazza, col "Titanic", che non intende eguagliarne le spericolate traiettorie. Molto sobriamente la macchina da presa si avvicina col primo piano al volto dei potenti, ne scruta l'impenetrabile maschera. Isabella II, il presidente americano Van Buren, John Adams, vengono raffigurati senza il minimo intento aneddotico, e continuano ad appartenere ai loro giorni: la macchina del tempo di Steven Spielberg non interferisce con l'ordine dell'Universo. Proprio in questa misura sta la potenza di "Amistad"; ma con ciò non si dimentichi che il suo autore conserva intatto quel talento meraviglioso che gli permette di girare il lungo antefatto della rivolta degli uomini neri praticamente senza usare parole, senza offrire allo spettatore il facile appiglio della narrazione pura: solo corpi sofferenti in una notte agitata, sagome confuse nel colore della notte, squarciato a tratti dal rosso del sangue versato.




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3 Aprile 1998
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