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il caricatore

di Luca Bandirali


Non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Montale, Ossi di seppia



"Gli autori italiani cercano sempre di rifare 8 e ½ ..." . Eugenio, giovane (aspirante) film maker, riassume le note debolezze del cinema italiano in una sentenza affilata, destinata ad un interlocutore che è americano e fa lo



sceneggiatore: è questo uno dei momenti chiave del Caricatore, opera prima di tre cineasti che si sono già guadagnati la simpatica reputazione di autarchici, e che hanno avuto il grande merito, in quest’ultimo scorcio della stagione cinematografica, di scuotere i critici dal consueto stato letargico.
Voglio introdurre qui le ragioni di un caso, ed enuclearne le pregevoli caratteristiche.
Pur girato in economia, Il caricatore non somiglia affatto al cinema a basso costo compiaciuto e fintamente alternativo di tanti registi sotterranei; anzi, trovo che la dedica iniziale a Tanio Boccia (l’Ed Wood degli anni d’oro di Cinecittà) sgombri subito il campo dall’equivoco autoriale e dalla presunzione d’artista che rovina tanti convinti eredi di Rossellini.
Eugenio Cappuccio, Massimo Gaudioso e Fabio Nunziata si producono in una serie di incursioni rapide ed efficacissime nell’ambito della messa in scena, mostrando di possedere nella massima dose un’autoironia che si traduce prontamente nella leggerezza di impostazione che qualifica il racconto, risolto in una segmentata indagine sulle peculiarità dell’amato mezzo cinematografico.



Il primo bersaglio centrato in pieno dal trio è quello del mondo dei sogni del cinema d’autore, cristallizzato nelle forme immutabili del minimalismo straccione, del surrealismo di maniera, della commedia maleducata. Il secondo bersaglio è il sistema: il film disegna infatti una satira feroce dell’industria cinematografica utilizzando la vicenda vissuta, portandola ad esempio (in)credibile del funzionamento di una macchina che sembra scoraggiare programmaticamente l’iniziativa. Il produttore Arcopinto (nel ruolo di sé stesso) dà vita ad un personaggio diabolico, a metà tra il boss latitante (i tre lo incontrano dopo un viaggio condotto in assoluta segretezza e clandestinità, percorrendo sentieri montani a dorso di mulo) e il tycoon adulato (schiere di speranzosi giovani autori si prestano ad estenuanti partite di calcio per assecondarlo in quella che è la sua vera passione). Gelido, disincantato, autoritario, crede ciecamente in un cinema confezionato, necessariamente a colori, interpretato da attori famosi, riconoscibili da un pubblico educato dalla televisione.
Meta-cinema dunque, questo del Caricatore, come Lisbon story di Wenders, come Nitrato d’argento di Ferreri: l’arte riflette (su) sé stessa, alla ricerca dei modi e dei fondamenti dell’agire. Per fare ciò essa diventa autoreferenziale e ripercorre la propria storia scoprendo, forse per la prima volta, i segni del passato, i colori primari alla base di tutti i codici espressivi, quelle acquisizioni per sempre di cui parlava Tucidide.
Disseminati nella pellicola a comporre una sorta di caleidoscopio dell’immaginario visivo, si rincorrono frammenti di un’idea di cinema complessa, animata da tensioni di senso opposto: sequenze della vita di strada, incontri casuali, inserti video, immagini accelerate che preconizzano il futuro frenetico di una realtà in movimento, tutto questo è contaminazione, parola d’ordine da tenere a mente.
L’esposizione dei numerosi riferimenti è condotta da Cappuccio, Gaudioso e Nunziata con un gusto felicissimo per la citazione, intesa non come omaggio ruffiano alla Tornatore ma come momento funzionale al discorso di fondo sull’opportunità di fare il cinema, un’opportunità che i nostri afferrano saldamente, evidenziando una maturità di linguaggio ed una consapevolezza del mezzo sorprendenti. Per fare un esempio, ho trovato eccellente l’uso che gli autori fanno del paesaggio urbano: senza scomodare Rohmer e i registi-architetti, mi sembra che il trio del Caricatore possieda un senso dello spazio non comune e che esprima in modo compiuto una certa sensibilità rivelatrice, un certo sguardo che spoglia l’oggetto città dell’abito quotidiano di sfondo neutro per renderlo elemento attivo, dunque soggetto; quando la vicenda si sposta da Roma a Foce Verde il positivo rapporto tra la macchina da presa e il non-luogo produce esiti tutt’altro che scontati ed è capace di imprimere alla storia notevolissime variazioni sul tema (gli echi bunueliani del "funerale" di Cappuccio, le tentazioni ciniche della corsa suicida di Gaudioso verso il mare).
Lo spettatore accorto si divertirà a raccogliere tutti gli spunti suggeriti con inesauribile vena dal Caricatore; irriverente (in un ristorante pontino i giovani cineasti fanno la conoscenza di tre ragazze russe presentandosi come Eisenstein e Dziga Vertov), con sprazzi di pura comicità (spassoso il fonico Ricossa, che mi ha ricordato la buffa fragilità del Fabio Traversa di Ecce bombo), questo film è un caso nel panorama cinematografico italiano proprio in virtù della freschezza con cui costruisce una poetica, instaurando un rapporto dialettico con dei buoni maestri, siano essi il Kevin Smith di Clerks o il Nanni Moretti della Sconfitta. Le schegge di un’ispirazione multiforme si fondono poi senza traumi in un bianco e nero cangiante, sporco e intenso, proprio come a volte (e Il Caricatore ne è un esempio) sa essere il cinema.


IL CARICATORE
di Cappuccio-Gaudioso-Nunziata
Italia 1997


Produzione: Axelotil Film
Regia:Cappuccio, Gaudioso, Nunziata
Interpreti:Cappuccio, Gaudioso, Nunziata
Fotografia: Vincenzo Marinese
Musiche: Daniele Sepe



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13 maggio 1997
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