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il testo nudo 1

di Valentino Faticanti


«Il cinema è, il giovanissimo erede di duemila anni di pittura europea. La pittura e, spero, il cinema, sono veicoli dei ragionamenti e delle speculazioni filosofiche... e finalmente l'espressione di un piacere puro davanti all'esistenza di tali oggetti, le icone»

P. Greenaway


I l cinema di Peter Greenaway come attività pittorica:ovvero,una sezione del processo generale dell'arte visuale. Se è dunque ovvio considerare come una costante del suo cinema la presenzadei quadri, intesi non solo come tele nella cornice,ma anche come divisione dello spazio dell'inquadratura, è più chiaro allora il rapporto tra il suo indagare sul binomio sesso(corpo)/scrittura(arte) e l'uso di tecniche avanguardistiche (come l'uso di "finestre" e della disposizione combinata di immagini).
Il suo nuovo film (THE PILLOW BOOK) scaturisce di fatto dalla sua ricerca intorno a quella che egli considera "l'arte suprema": il significante che accoglie in sč il significato, il "rischio" di sperimentazioni sempre più ardite, verso (forse) la totalità dell'arte. In sintesi, realizzare attraverso la contemporaneitą la autoreferenzialitą del cinema.



E forse (non) è un caso il prepotente ritorno nella memoria del primo lungometraggio del regista inglese, THE DRAUGHTSMAN'S CONTRACT, basato anch'esso sulla carne e sulla scrittura pittorica, insieme alle recenti affermazioni di Greenaway sulla non-nascita del cinema: la sua intera filmografia, infatti, testimonia principalmente l'impotenza dell'espressione artistica di fronte ad un mondo visto come un codice (parzialmente) decrittabile.



il testo nudo 2

di Francesca Capobianchi


C redo che per accedere ad un film complesso, multiforme, sfaccettato e soprattutto intessuto da mille trame diverse ma nello stesso tempo calibrate l'una con l'altra, si debbano privilegiare necessariamente alcuni aspetti e tralasciarne altri. Innanzitutto abbiamo a che fare con uno dei film di Greenaway in cui è fatto pił uso dell'intersezione, dell'incastro, della sovrapposizione, della scomposizione; egli si serve di una serie di linguaggi diversi che rendono il tessuto prezioso e ricco, di ossessioni che ritornano: come l'eros, la bellezza, la morte, l'impasto di spazi e di tempi, di varie chiavi di lettura, il piacere dei sensi e la tecnica. E' infatti l'uso dell'elettronica che permette le sovraimpressioni, gli intarsi, i riquadri, l'apertura di finestre negli spazi che il regista inglese si ritaglia sullo schermo. Greenaway sembra servirsi dello schermo bianco così come i protagonisti del film fanno con l'altrettanto bianca e glabra pelle umana per fregiarla di preziosi ideogrammi e per provare un piacere intenso come quello che deriva dall'odorare un libro intonso o dallo sfiorare
una pagina liscia. Viene il dubbio se si possa ancora parlare di un film e se è sufficiente la categoria di "bello"; bisognerebbe forse coniare aggettivi validi per comprendere la sinestesia che colpisce lo spettatore abituato alla fruizione di un'immagine o di un testo o di un film.



Qui invece ogni singola immagine nasconde mille altri accessi altrettanto suggestivi e misteriosi nonché affascinanti: come la protagonista Nagiko riesce a scrivere libri negli incavi del corpo umano, così anche Greenaway riesce ad intarsiare lo schermo. Cos'è questo se non il trionfo dell'immagine?

Perché si mostrano degli ideogrammi giapponesi vergati dappertutto (sui corpi, nei corpi, alle spalle dei personaggi sulle pareti)? E perché, lo schermo viene sezionato nei momenti in cui si vedono rilegare dei libri (in queste due scene, in questi spazi, ci sono tra l'altro dei significativi salti temporali dall'infanzia di Nagiko al momento in cui troverà l'unico amante da cui farsi segnare il corpo, ma anche su cui scrivere)? Io credo che il motivo risieda nell'assoluto privilegio che il regista ha voluto dare all'immagine rispetto al testo, rispetto alla lettera: quelle segnate sui corpi di Jerome e dei vari messaggeri non sono lettere, o meglio prima di essere lettere che rimandano a qualcosa sono segni, sono immagini che assumono il significato complessivo del testo. L'immagine diviene autosufficiente, basta a completare il proprio senso non avendo più bisogno della letteratura come supporto indispensabile. Mentre scorrono davanti ai nostri occhi libri rilegati e sistemati, noi vediamo delle immagini che rompono lo spazio di fruizione e ci danno il senso: non sono testi rilegati quelli, ma immagini esaustive. Quello che mi lascia perplessa, però, è che in questa costruzione di modelli certamente suggestivi ed unici dal punto di vista dell'impatto visivo, Greenaway tenda a darci una regola che risolva l'imperfezione del mondo, quasi una pura logica, una cristallina forma: un modello quasi perfetto, geometrico, in cui le parti non potrebbero non stare così rispetto al tutto, e la bellezza dei protagonisti rimane assoluta come una formula matematica. Mi sembra un tentativo di ricreare la complessitą della percezione del nostro mondo, senza però rispettarne limperfezione e l'illogicità.



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9 dicembre 1996
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