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considerazioni (finalmente) inattuali

di Luca Bandirali


«Lo abbiamo fatto nell'hangar dell'aeroporto: sarebbe potuto entrare chiunque...»

Deborah Unger nel film "CRASH"


tutti gli anni, due volte l'anno: con una frequenza che si approssima statisticamente a quella delle feste comandate, ecco che arriva lo scandalo che accoglie con solerzia il film DI CUI SI PARLA, il film CHE FA DISCUTERE; sulle prime (!) pagine dei quotidiani nazionali si sviluppa un accanito dibattito sull'oggetto film, il tutto si estende ai telegiornali che informano la popolazione degli effetti collaterali derivanti dall'assunzione di pericolose immagini in movimento; quando poi le parole dell'esperto rugoso e incanutito, sussurrate con tono paterno dalle poltrone avvolgenti di un talk show, illuminano la smaliziata platea domestica sul significato dell'Arte ("Signori miei, questa non è Arte !"), è il segno che l'incontro di cervelli volge al termine: il verdetto è stato pronunciato, il cinema non è più sulla bocca di tutti, e torna nei meandri paludosi in cui si muovono felici addetti ai lavori e veri appassionati. Quante volte è successo? Mi vengono in mente le crociate contro Pasolini, le vibranti proteste di certa stampa contro il Kubrick di "Arancia meccanica", il Godard di "Je vous salue, Marie", il Bertolucci di "Ultimo tango a Parigi". L'opinione pubblica mi sembra uno di quei circoli esclusivi frequentati da signore timorate, il cui senso del pudore è orientato e condizionato dalle grandi verità di ciarlieri maestri di pensiero che sentenziano tempestivamente su tutto ciò che si presenta come fenomeno di costume.
E l'Italia è piena di questi arbitri inquietanti, la cui vena polemica è stata recentemente rinvigorita dall'uscita nelle sale di "CRASH",



l'ultimo controverso lavoro di David Cronenberg tratto dall'omonimo romanzo di J.G.Ballard; il film ha suscitato pareri contrastanti fin dalla prima proiezione al festival di Cannes, dove ha ricevuto il premio speciale della giuria presieduta da Francis Coppola (premio che ha permesso di individuare nel film di Cronenberg il vincitore morale di Cannes '96). I nostri intellettuali salottieri non si sono fatti attendere: alcuni hanno dispensato sonore bocciature, da veri crociati della sanità mentale e del rispetto del pubblico, interpretando in questo teatrino ridicolo il ruolo dei moralizzatori di una società degradata; altri hanno difeso il film (con un argomentare disimpegnato da cronaca rosa) allo scopo dichiarato di apparire cool e progressisti. Pochi hanno visto il film (si evince dal fatto che negli interventi letti non c'è il benchè minimo accenno ad un dialogo, un personaggio, un'inquadratura...), tutti si sono sentiti in dovere di dire la loro, proprio come dopo le sconfitte della Nazionale di calcio. Tra gli illustri avversatori mi piace ricordare un'inviperita Irene Bignardi, critico del quotidiano "La Repubblica", che se la prende con il "club dei boccaloni", appellativo canzonatorio di vaga derivazione pansiana che secondo Bignardi identifica i critici che hanno applaudito "CRASH"); tra coloro che hanno sorriso benignamente con l'aria di chi ne ha viste tante e non si scandalizza più c'è invece sicuramente Natalia Aspesi che nel suo pezzo (sempre su Repubblica) in un tono scanzonato e divertito da satiretta riesce a perdere completamente di vista l'oggetto di tanto dibattere, il FILM (proprio come quando si chiacchiera del più e del meno dal parrucchiere). Ma il climax effettivo del delirio che ha colpito le nostre menti più lucide lo raggiunge un vero mostro sacro dell’informazione: Furio Colombo. Lo sciamano della cultura americana dalle colonne dell'ipercitato Repubblica ammonisce il pubblico italiano e ci regala alcune perle: negli States, scrive Colombo, "CRASH" non trova un mercato, Ted Turner (il padrone della CNN, non certo l'ultimo arrivato) lo ha definito "Junk", insomma questo film non vale niente, dunque gli americani ora cercano di rifilarci della merce avariata. In sostanza lo sciamano avverte l'incauto consumatore di cinema invitandolo a diffidare di Cronenberg e dipinge uno scenario di sudditanza culturale tutto da ridere, che funzionerebbe così: quando negli USA un lungometraggio per le sale fa così schifo che neanche un vampiro come Ted Turner se ne cura, allora Hollywood pensa di rifarsi al mercato dei gonzi, cioè in Italia. Cosa possiamo obiettare ad un così acuto osservatore dei nostri tempi?

Questa lunga premessa ha un senso: voglio dire che parlare di un film non dev'essere lo sterile esercizio del giudicare, soltanto perchè si è nella posizione di farlo (come i signori citati). Parlare di un film presuppone comunque una preparazione minima sull'autore e sulla sua poetica, sul contesto socioculturale in cui l'opera prende vita ed implica una passione di fondo per il cinema tout court (se una persona non ama leggere gli scrittori contemporanei difficilmente riuscirà a scrivere una critica valida dell'ultimo libro della Ortese o di Lodoli). Oltretutto credo che a darmi ragione sia il tono monocorde degli articoli citati, che dell'evento-film registrano solo un'eco distorta, senza entrare nel merito di sequenze, musiche, performances che evidentemente sono ignote a quei giornalisti. E non si scrive mai (forse Colombo lo insegna nelle università di mezzo mondo) per sentito dire.

Chiusa la premessa, a questo punto diventa una piccola sfida quella di scrivere di "CRASH" avendolo visto davvero, e avendolo apprezzato. Questa "variazione tecnologica sul tema del rapporto eros-thanatos" (la definizione è di Alberto Pezzotta, un critico boccalone...) è l'ultima provocazione di David Cronenberg, un autore che ama mettere in scena ossessioni (le proprie?). La visione del film sconcerta per il rigore delle immagini, mai gratuite ma funzionali ad un discorso di fondo assolutamente coerente e compatto dalle premesse alle conclusioni. Lo spettatore che riesce a sintonizzarsi sulle frequenze esatte è impaurito: Cronenberg mostra con freddezza lo scheletro del mondo, lo spettatore ne prende atto fin dalla prima sequenza, un amplesso uomo-donna-motore che introduce senza mezzi termini l'immaginario del regista canadese. E' il principio di un viaggio iniziatico, sia per i protagonisti di "CRASH" che per il pubblico, tutti coinvolti in quel meraviglioso gioco che è mettere in discussione se stessi.
I coniugi Ballard, biondissimi esponenti della borghesia urbana americana, interpretati da James Spader e Deborah Unger, sono una coppia affiatata e perbene: ostinati nella ricerca del piacere, si eccitano al racconto reciproco dei
rispettivi rapporti sessuali con altri partners; poi un incidente d'auto vissuto da mr. Ballard crea i presupposti per una scoperta da brivido: il piacere associato al rischio della morte. E' la vedova dell'uomo deceduto nell'incidente citato, interpretata da Holly Hunter, ad iniziare la coppia agli strani rituali dell'autoscontro, officiati da un individuo sinistro (Elias Koteas) il cui corpo è un cicatrice pulsante; questi organizza in assoluta clandestinità le ricostruzioni fedeli, complici alcuni stuntmen, degli incidenti mortali più celebri (ad esempio quello in cui perse la vita James Dean). Sarà questo personaggio a sedurre definitivamente il signore e la signora Ballard, e a trascinarli in un vortice senza ritorno. Trovo "CRASH" prodigioso, fortemente innovativo, fondamentale per tutti gli appassionati del cinema di qualità: tutto ciò è dovuto allo sguardo di Cronenberg, affilato ed impietoso (dunque davvero pericoloso). Lo spettatore noterà che il regista di "Inseparabili" non spettacolarizza l'incidente d'auto, non lo riprende con zoom e dolly alla De Palma o alla Friedkin per renderlo emozionante: le carrozzerie non si squarciano fragorosamente, i corpi non schizzano come proiettili dall'abitacolo in fiamme, il montaggio non è martellante come in un "The rock" qualunque: sono immagini che ci obbligano ad un'attenzione costante, è come se Cronenberg fosse lì a dire "Questo non è un film d'azione". Stesso trattamento viene riservato alle scene di sesso: non ci sono dissolvenze incrociate né silenzi eloquenti, tutto è esplicito, le parole ed i gesti sono inequivocabili. La sostanza del film è proprio qui, e non altrove: nei sobri e misurati movimenti della macchina da presa che esprimono un punto di vista rigidamente neutrale: l'autore si allontana esplicitamente dal luogo dell'azione per mostrare con il necessario distacco lo scontro fatale delle automobili e dei corpi. Non c'è compiacimento in questo sguardo, né disgusto: questo rende "CRASH" catalizzatore delle sane paure del pubblico. Ci si chiede come possa quest'uomo portare alla ribalta il disastro e come riesca a farlo senza:
1) dividere il mondo in buoni e cattivi e schierarsi, come fa Ken Loach ("Carla’s song")
2) azzardare ipotesi di ricostruzione più o meno ottimistiche (tutto Spielberg)
3) ironizzare, ossia danzare beffardamente sulla carcassa del mondo ("Trainspotting" di Danny Boyle)
4) compiacersi del proprio ruolo di manipolatore di immagini, riducendo tutto ad un puro esercizio di stile ("Assassini nati" di Oliver Stone).
Ho fatto riferimento a registi che, dal punto di vista cronologico, hanno fatto cinema da Cronenberg in poi. Ma il regista canadese con i suoi ultimi lavori merita, per qualità e coerenza, il confronto con i maestri del passato. In particolare lo accosterei ad Alfred Hitchcock: al maestro inglese lo accomunano la ricerca incessante della perfezione formale, il controllo totale esercitato sul prodotto film, la direzione autoritaria degli attori, la cura delle sceneggiature, il dono della giusta posizione della macchina da presa. Si tratta inoltre di due autori che fanno dell'ossessione la materia del proprio cinema: di pellicola in pellicola mettono a fuoco un'idea del mondo e della sua rappresentazione, ed ogni nuovo film è dunque il tassello di un mosaico il cui disegno definitivo (chiaro fin dall'inizio nella mente degli autori) si realizza attraverso il montaggio ad anello delle opere compiute, incompiute o solamente sognate, vanamente inseguite. Non è un caso se il sogno proibito di mr. Cronenberg si chiama "AMERICAN PSYCHO", il capolavoro di Bret Ellis; da tempo vorrebbe farne una trasposizione cinematografica, ma sembra che il progetto stenti a partire per contrasti tra i due (caratteri difficili...). Se questo si realizzasse, da adoratore del libro quale sono, mi piacerebbe vedere lo stesso Ellis alla sceneggiatura, mentre il protagonista ideale mi sembra Jean Hugues Anglade ("Subway", "Killing Zoe", "La regina Margot"), un attore in grado di esprimere magnificamente la lucida follia dell'eroe ellisiano.


CRASH
di David Cronenberg
Canada 1996


Sceneggiatura: David Cronenberg
Fotografia: Peter Suschitzky
Montaggio: Ronald Sanders
Interpreti: James Spader (James Ballard), Deborah Unger (Catherine Ballard), Holly Hunter (Helen Remington), Elias Koteas (Vaughan)
Durata: 98 min.



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7 dicembre 1996
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