LA SCULTURA MONUMENTALE IN PROVINCIA DI LATINA
Non sarà mai sufficiente sottolineare l'utilità di un
inventario come il presente, e dell'appassionato lavoro di ricerca che
lo sottende. Un impegno che, oltre tutto, prende le mosse da lontano, tant'è
che gli autori Alberto Serarcangeli e Massimiliano Vittori hanno all'attivo
altre notevoli pubblicazioni sul patrimonio artistico novecentesco della
provincia di Latina. La conoscenza costituisce, infatti, non soltanto motivo
di arricchimento culturale e di nutrimento della memoria storica di un
determinato insediamento urbano e/o territoriale, ma premessa indispensabile
dell'azione di tutela.
Ed è noto come sia purtroppo proprio il repertorio moderno,
tanto delle arti visive che dell'architettura, quello più inerme
dal punto di vista giuridico e pratico; quello più esposto alle
manomissioni. L'inesistente o ridotta storicità lo rende infatti
indifeso di fronte alle oscillazioni del gusto; al variare, non di rado
drastico e passionale, delle scelte ideologiche; al più banale,
ma non per questo meno insidioso, vandalismo metropolitano.
Per quanto attiene, in particolare, al nucleo monumentale degli anni
Venti e Trenta - davvero fondamentale nel caso della provincia pontina-
è stata proprio l'ostilità ideologica a provocarne nel dopoguerra
l'incomprensione, lasciando quindi via libera alla dispersione e alla fisica
aggressione di molteplici opere, anche ragguardevoli, prodotte nel ventennio
storicamente coincidente con lo svolgimento della vicenda fascista.
L'esemplificazione potrebbe essere, al riguardo, nutrita; mi limiterò
a citare quattro episodi, del resto ben noti: l'oltraggio censorio perpetrato
contro l'affresco sironiano nell'aula magna della Città universitaria
di Roma, con guasti probabilmente irreversibili.
Ancora: il brutale stravolgimento architettonico della Casa delle Armi,
capolavoro giovanile di Luigi Moretti, al Foro Italico sempre a Roma, trasformata
all'inizio degli anni Settanta in aula-bunker per il processo Moro (e poi,
presto, abbandonata con attitudine da vandali dissipatori). Trasferiamoci
a Latina: ed ecco il lagrimevole caso dell'edificio postale progettato
da Angiolo Mazzoni, cospicua testimonianza del "secondo" Futurismo architettonico,
letteralmente devastato negli anni Sessanta, con l'eliminazione dell'elemento
compositivamente più spettacolare - la scalinata ad arco rampante
- e col brutale addossamento alla fabbrica originaria di un banale corpo
edilizio. Infine, per quanto attiene all'ambito che più ci interessa
in questa sede, quello appunto della scultura monumentale, converrà
citare il recente smantellamento del monumento ai Caduti di Imola. E dire
che quest'ultimo si deve ad uno dei più significativi tra i nostri
scultori di inizio Novecento, Angelo Zanelli, autore pure del davvero superbo
bassorilievo centrale dell'Altare della Patria.
Esempi negativi, da impegnarsi ad impedirne di analoghi nel futuro.
Ed ecco, dunque, il ruolo fondamentale, prioritario, della conoscenza e,
quindi, dell'inventariazione.
Questa ricognizione ora effettuata da Vittori e Serarcangeli potrà,
magari, risultare in futuro non definitiva, in quanto qualche ulteriore
testimonianza, di rilievo certamente minore, potrà venire segnalata
da zelanti cultori di storia locale, giungendo così ad arricchire
la messe già insospettatamente vasta di notizie offerta dal volume.
Ma questo resterà comunque repertorio fondamentale di riferimento,
come pure prova di lungimiranza da parte dell'amministrazione provinciale
che l'ha promossa; lungimiranza che ci si augura venga rapidamente fatta
propria da altri enti locali.
Ma veniamo al contenuto dellopera: questa propone la schedatura
di oltre duecento voci di scultura monumentale, beninteso di diversissimo
valore in quanto a qualità estetica e ruolo urbano - dal gruppo
scultoreo alla targa marmorea, tanto per intenderci - individuate dagli
autori nel territorio della provincia di Latina. Il segmento cronologico
interessato dall'operazione è quello corrispondente ai meno che
centoquarantanni di unità nazionale, dal 1860 ai giorni nostri.
Una sola l'eccezione alla delimitazione di tale arco temporale; ma, questa,
degna di nota.
Si tratta delle statue di Gennaro De Crescenzo, lo scultore napoletano
di formazione neoclassica attivissimo nella decorazione del Palazzo Reale
partenopeo, collocate sulla facciata della chiesa di S. Francesco a Gaeta.
Numericamente esigue, del resto, risultano anche le presenze monumentali
risalenti all'ultimo scorcio del XIX secolo: per lo più fontane
(di Cisterna, Fondi, Norma, Privemo, S. Felice Circeo, Sezze, Terracina),
senza peraltro dimenticare la coppia di angeli giudicanti, collocati all'ingresso
del cimitero di Sezze, tarda quanto tenace testimonianza di adesione dell'anonimo
autore alla temperie stilistica e al modello di sistemazione sepolcrale
elaborato dalla sensibilità neoclassico-romantica. In realtà,
ancor prima di una valenza propriamente estetica, tali manufatti si fanno
portatori di istanze più genericamente culturali, inducendoci a
riflettere sul complesso processo di aggregazione del territorio della
provincia pontina, istituita il 18 Dicembre 1934, accorpando porzioni già
di pertinenza delle province di Roma, Frosinone e Caserta, e quindi provenienti
da realtà statuali diverse e di saldissima tradizione storica: lo
Stato della Chiesa (mediante i due dipartimenti di "Marittima", soprattutto,
e di "Campagna"), e il Regno di Napoli di cui in particolare Gaeta costituiva
notoriamente una delle più munite piazzaforti.
A parte il peraltro assai fine e ancora tutto ottocentesco busto del
re Umberto I di G. Ronca, collocato nel giardino comunale di Formia dopo
il regicidio di Monza, il vero esordio del nuovo secolo in territorio pontino,
per quanto attiene all'ambito della plastica monumentale, è ravvisabile
all'inizio degli anni Venti, con la sequenza dei monumenti ai caduti nella
Grande guerra. E, se è stato affermato giustamente che i veri, grandi
musei della scultura ottocentesca sono i cimiteri, in modo altrettanto
fondato può sostenersi che nella sterminata teoria dei monumenti
ai caduti in guerra, presenti nelle piazze di gran parte delle città
europee, si ricompongono i lineamenti della scultura occidentale del primo
trentennio del secolo.
Nella teoria di questi memoriali - sovente, nei centri minori, risolti
con semplici lapidi, cippi od obelischi marmorei - è possibile scorgere,
nella pianura pontina, soluzioni esteticamente significative. E', per esempio,
il caso della potente Vittoria alata, palesemente ascrivibile ad una temperie
tardo-simbolista, di Angelo Ternavasio, autore, appunto, del monumento
di Cori. Ovvero il monumento di Formia, opera della scultrice australiana
Dora Ohlfsen, che paga il tributo alla data di esecuzione (1924) - così
precariamente sospesa tra gli estremi esiti, davvero fuori tempo massimo,
della vicenda simbolista-floreale e le avvisaglie novecentesche - nell'evidente
dicotomia tra il bassorilievo basamentale, più tradizionale seppure
di finissima ideazione, e la statua bronzea di coronamento, che sarà
magari facile giudicare alquanto enfatica, ma che è comunque ben
più della prima aperta ai nuovi linguaggi.
Dignitosi risultano anche il monumento di Sezze, opera bronzea di Massimo
Gallelli, e quello di Castelforte opera di Torquato Tamagnini.
Un discorso a parte merita il monumento di Gaeta che oggi esibisce,
su un basamento più antico, una bronzea Vittoria alata, fusa nel
1950 da Guido Galletti, scultore ai discreta notorietà specie nel
corso degli anni Trenta, e di cui si conservano tuttora altri due bronzi
nella mutila Galleria comunale di Latina (il cui nucleo qualificante consiste,
come è noto, in quanto sopravvive dell'ex Pinacoteca di Littoria).
In realtà, allorché fu inaugurato nel 1928, il monumento
recava una più grande e proporzionata alla base Vittoria alata di
Aurelio Mistruzzi, il celebre medaglista e scultore, malauguratamente rimossa
e distrutta nel corso della seconda guerra mondiale (di Mistruzzi restano
comunque sul basamento due pannelli bronzei). Questa vicenda offre lo spunto
per introdurre un ulteriore argomento cui Vittori e Serarcangeli hanno
opportunamente dedicato cospicua attenzione, quello delle sculture monumentali
disperse nel corso degli anni. In tale repertorio spicca dolorosamente
la distruzione per vicende belliche del corredo decorativo - affidato ad
artisti futuristi (Ambrosi, Andreoni, Di Bosso, Dottori, Rosso) ed esposto,
prima dessere collocato in opera, nientemeno che alla VI Triennale del
1936- della sala di rappresentanza del palazzo municipale di Aprilia, cominciando
dal grande bassorilievo di Enrico Prampolini .
Ma, a questo punto, avendo accennato ad Aprilia e all'attività
dei Futuristi in terra pontina, occorre riconoscere di esserci spinti troppo
in avanti mentre riesce invece opportuno evocare il grande evento che,
tra gli anni Venti e i Trenta, trasformò radicalmente il territorio,
vale a dire limponente intervento di bonifica delle paludi malariche e
la costruzione delle "città nuove”. L'arrivo in massa da altre regioni,
soprattutto dal Veneto, di braccianti e coloni; la vastità dell'impresa
che aveva registrato il sostanziale fallimento delle iniziative bonificatrici
tentate dai papi - da Leone X a Sisto V, a Pio VI; il sorgere rapidissimo
delle città di fondazione; gli imponenti lavori condotti ancora
con prevalenza della manodopera umana, tutte queste circostanze valsero
ad assumere i contorni di una grande epopea contadina.
L'abituale constatazione che l'intervento di bonifica e la costruzione
speditissima delle "città di fondazione" (Littoria, Sabaudia, Pontinia,
Aprilia, Pomezia, quest'ultima inclusa nell'ambito territoriale della provincia
di Roma, e, quindi, non presa in esame dalla ricerca di Vittori e Serarcangeli,
benché - come si avrà modo di ricordare più avanti
- il suo corredo di decorazione monumentale si ricolleghi strettamente,
per l'ideologia artistica e per le personalità coinvolte, agli altri
insediamenti pontini), fosse seguito con estremo interesse tanto in Italia
che all'estero, trasformandosi in uno dei principali canali di acquisizione
di consenso al Regime, tocca solo marginalmente il nostro discorso. Mentre
risulta effettivamente fondamentale l'esito culturale, propriamente stilistico,
che tanto fervore realizzativo impose con decisione. E questo
va senza dubbio identificato con il Novecentismo, che aveva - non soltanto
in campo architettonico - il suo più noto esponente e il più
potente arbitro di gusto in Marcello Piacentini.
Novecentismo significava superamento delleclettismo; adozione di una
decisa semplificazione formale delle facciate (eliminazione dei cornicioni;
sostituzione dei tetti con i mediterranei terrazzi; riquadratura
perentoria dei vani di porte e finestre), recependo suggestioni dell'architettura
medievale italiana (le torri degli edifici comunali), anteponendo tuttavia
il ruolo monumentale all'adesione funzionale, e conseguendo un singolare
effetto di inveramento costruttivo delle architetture "metafisiche", dipinte
un quindicennio prima da Giorgio De Chirico, nella fase più memorabile
della sua attività.
Interessanti, ma certamente minoritari, gli spazi riservati a tendenze
più avanzate, come il Futurismo e il Razionalismo che, con il progetto
del gruppo Piccinato, "firmò" la città capolavoro di Sabaudia.
Eppure proprio nel caso di Sabaudia è possibile toccare con mano
la giusta osservazione di Paolo Portoghesi, secondo cui, in pratica, pur
nelle varie articolazioni, sussista una sostanziale omogeneità della
"via italiana al moderno", e "...come in quegli anni ci fosse una distanza
minore fra il tradizionalismo italiano ed il razionalismo italiano che
non tra il razionalismo italiano e quello europeo". In questo percorso,
pittura e scultura erano chiamate ad un rapporto nuovo e insostituibile
di collaborazione con l'architettura: un ruolo pubblico ed una funzione
sociale, in opposizione all'accezione individualistica, estetizzante, intimistica
propria della mentalità borghese. Non certo a caso, l'autorevolissimo
e ufficiale "Convegno Volta", promosso dall'Accademia d'Italia, fu dedicato
nel 1936 al tema dei "Rapporti dell'architettura con le arti figurative"
(vi parteciparono, fra gli altri, Marinetti e Le Corbusier, Giovannoni
e Casorati, Canonica e Ojetti, Selva e Carena, Carrà e Ferrazzi,
Oppo e Severini, Maurice Denis e Del Debbio, Muzio e Lothe, Ponti e Dudok).
E' il tempo del muralismo (che trova, oltretutto, riscontri eloquenti
in aree geografiche e in contesti politici diversissimi, come il Messico
di Rivera e Siqueiros) e della grande scultura monumentale, del cui peso,
anche economico, nel contesto architettonico si dibatte in Italia ampiamente,
aprendo la strada al varo della cosiddetta “legge del 2%", che avverrà
nel 1942. Di tale ruolo si fanno espliciti teorizzatori, nel 1933, Sironi,
Campigli, Carrà, Funi col "Manifesto della pittura murale: “Nello
Stato Fascista l'arte viene ad avere una funzione sociale: una funzione
educatrice. Essa deve tradurre l'etica del nostro tempo. Deve dare unità
di stile e grandezza di linee al vivere comune. L'arte così tornerà
ad essere quello che fu nei suoi periodi più alti e in seno alle
più alte civiltà: un perfetto strumento di governo spirituale.
La concezione individualista dell'arte per l'arte è superata...
A ogni singolo artista s'impone un problema di ordine morale. L'artista
deve rinunciare a quell'egocentrismo che, ormai, non potrebbe che isterilire
il suo spirito, e diventare un artista "militante, cioè a dire un
artista che serve un'idea morale, e subordina la propria individualità
all'opera collettiva”.
E' a un simile contesto che guardano, in un linguaggio di dignitosa
retorica, molte opere di plastica monumentale che, nel corso degli anni
Trenta, trovano collocazione in territorio pontino: i gruppi modellati
in cemento da Egisto Caldana per Piazza del Quadrato, o le statue marmoree
di autore sconosciuto per il "Palazzo M" sempre a Latina, ovvero i rilievi
documentati dal volume, tutti ispirati alla sanità e ai valori della
vita rurale.
Ben diversa rilevanza estetica assume ad Aprilia la statua bronzea
dell'arcangelo protettore della città, S. Michele, opera (1936)
di un Venanzo Crocetti alla vigilia di ottenere la consacrazione a maestro
della scultura italiana contemporanea, con la sala personale e il gran
premio per la scultura alla Biennale veneziana del 1938 (all'anno precedente,
tra l'altro, risale l'architrave della chiesa di Pomezia, scolpito ad altorilievo
con episodi della vita di S. Benedetto. Tuttora crivellato dalle
schegge, ferite volute conservare dalla cittadinanza a ricordo della sua
vicenda tormentata, il "S. Michele" è l'unica testimonianza superstite
dell'originaria Aprilia, interamente distrutta nel 1944, durante la battaglia
seguita allo sbarco alleato di Anzio. Un discorso a parte merita la fontana
di Piazza della Libertà a Latina, ideata da Oriolo Frezzotti, l'architetto
progettista della città. Nonostante l'alta serietà professionale
di quest'ultimo, documentata egregiamente dal corpus dei disegni e degli
schizzi, è ormai invalso riferirsi a Frezzotti come ad un architetto
praticamente sconosciuto, quasi casualmente prescelto per un incarico molto
superiore al suo abituale cabotaggio professionale.
Considerazioni a dir poco forzate, se è vero che nel 1925 Marcello
Piacentini poteva elogiarne le qualità del progetto, partecipante
all'importante concorso per il monumento ai caduti di Milano.
Ma, incontestabilmente, il momento centrale e qualificante della scultura
monumentale nella provincia pontina consiste nell'attività di Duilio
Cambellotti, che è poi la testimonianza di un radicamento molteplice
e vitale nel territorio. L'interesse di Cambellotti per l'Agro romano e
pontino risaliva ai primi anni del secolo, ovvero al sodalizio col poeta
Giovanni Cena, (commemorato dalla lapide cambellottiana, collocata oggi
nella scuola a lui dedicata a Latina) con Sibilla Aleramo e con Alessandro
Marcucci, volto alla redenzione sociale degli sparuti abitanti di quelle
distese altrimenti deserte, fascinose e mortifere, abbrutiti dagli stenti
e da un'esistenza quasi primitiva, falciati dalla malaria: nascono da questa
attitudine le decorazioni delle scuole, le illustrazioni dei sillabari,
la celebre Capanna dellAgro Romano all'esposizione di Roma del 1911. Inoltre
l'artista romano e la sua famiglia erano abituati a trascorrere le vacanze
estive a Terracina: dall"'osservatorio" della sommità della torre
appartenuta nel medioevo ai Frangipane, egli era conquistato dalla latente
arcaica epicità della gente dell'Agro, aperto alla fascinazione
dell'intatto litorale dominato dal monte Circeo e ricco di echi mitologici,
che Cambellotti trasfigurava con la sua ideazione potente e sinteticamente
trasfiguratrice.
Gli alti silenzi, le distese sterminate popolate solo di butteri e
mandrie, qua e là punteggiate di candidi misteriosi bucrani, l'artista
li fissò mirabilmente in un capolavoro solo per la materiale
dimensione dei pezzi: il corpus delle illustrazioni per il volume Usi e
costumi della Campagna romana di Ercole Metalli. Cambellotti era dunque
naturalmente disposto ad interpretare il significato civile e la carica
epica insiti nell'imponente intervento di bonifica, e lo fece su tre diversi
livelli espressivi della sua genialmente versatile creatività. Ecco,
così, le grandi composizioni a tempera su ardesia artificiale, raffiguranti
la Redenzione dellAgro, collocate nel Palazzo della Provincia a Latina.
Ed ecco altresì, sul registro decorativo, l'insieme delle copertine
della rivista mensile "La conquista della terra", organo dell'Opera Nazionale
Combattenti, l'ente promotore della bonifica, realizzate tra il 1935 e
il 1939. Per finire con l'attività che più ci interessa in
questa sede, quella scultorea, che annovera il monumento ai caduti di Terracina
(1920; danneggiato durante la guerra, sarebbe stato restaurato dallo stesso
Cambellotti nel 1948); quello di Priverno (1933. Nel 1954, un viscerale
quanto immotivato sbocco di ostilità ideologica - uno dei nemici
più pericolosi, sè già detto, con i quali l'arte moderna
a destinazione pubblica s'è trovata a dover fare i conti - interpretando
per fascista il memoriale di una guerra iniziata e conclusa vittoriosamente
dall'Italia liberale, prima della nascita del fascismo, ispirava una delibera
della giunta comunale per la demolizione del monumento; ne sono sopravvissuti
solo tre bassorilievi bronzei). Da ultimo, i rilievi in cemento e
bronzo dell'Esedra della Giustizia, eseguiti nel 1936, per la Corte d'Assise
del Tribunale di Latina. Fortunatamente, grazie ad un'illuminata iniziativa
del Consiglio Regionale del Lazio, tra il 1982 e il 1984, il patrimonio
monumentale cambellottiano della provincia pontina si è arricchito
di altri tre pezzi prestigiosi, tre fusioni moderne in bronzo da gessi
originali: I cavalli della palude pontina (gesso datato intorno al 1910,
pervaso di un prepotente dinamismo da entusiasmare Boccioni) grande pannello
a bassorilievo, attualmente collocato nell'atrio di ingresso del palazzo
comunale di Terracina. Il buttero (gesso datato intorno al 1918-19), affidato
al comune di Cisterna, che spiace dirlo, non ha trovato di meglio che relegare
la statua in un deposito, senza peraltro impedire il danneggiamento della
parte più fragile, la lancia del cavaliere. La fonte della palude,
una tra le opere cambellottiane su cui l'artista ripetutamente tornò
a misurarsi, la cui ideazione originale risale al 1912-13, attualmente
nella raccolta d'arte del comune di Latina (una quarta fusione in bronzo,
La pace fu invece collocata presso la sede della Regione Lazio a Roma).
Tutte opere ben note, così da esimerci dal dovervi insistere in
questa sede; piuttosto ci sembra necessario rammentare la "tendenziosa"
e sistematica reticenza critica sulle opere ufficiali di Cambellotti, ritenute
evidentemente "imbarazzanti", di ostacolo politico alla rivalutazione del
Maestro romano. “Tendenziosità" che poteva, magari, trovare giustificazione
pragmatica un ventennio addietro, allorché si avviò la riscoperta
dell'artista, ma che oggi, nei mutati scenari culturali del Paese, si configura
soltanto come una prevenzione fuorviante.
Qualche riflessione è poi opportuno formulare riguardo il monumento
ai caduti di Borgo Hermada, che Cambellotti realizzò nel 1950. Opera
tarda, che non può certo vantare il vigore creativo delle realizzazioni
monumentali degli anni Venti e Trenta; oltre tutto, con ogni verosimiglianza,
fortemente condizionata dall'esiguità di mezzi economici dei committenti.
Ma che riveste, comunque, un cospicuo interesse, per così dire "ideologico",
attestando il permanere nel Cambellotti del secondo dopoguerra dell'attenzione
verso temi e soluzioni formali trattati negli anni Trenta e, in particolare,
di taluni di quelli che avevano ispirato la nutrita suite delle copertine
de "La conquista della terra".
Con il monumento di Borgo Hermada siamo anche giunti agli anni Cinquanta
e Sessanta che, riguardo la tutela della memoria storica di Latina e dei
centri di fondazione pontini, furono i più problematici. L'impetuosità
del processo di sviluppo demografico ed economico, come pure l'incomprensione
di matrice evidentemente politica per l'architettura e l'arte del Novecento
italiano, provocarono compromissioni anche gravissime che, se fortunatamente
lasciarono pressoché indenne Sabaudia, travolsero invece, impietosamente,
l'immagine urbana di Latina ed Aprilia.
Pochi gli episodi in controtendenza, come il sobrio e degno monumento
ai caduti in guerra del capoluogo, affidato sagacemente al progettista
della città, Oriolo Frezzotti (1959-60). A quegli anni, tutti dedicati
alla rinascita economica, si deve inoltre la dotazione di un paio almeno
di opere di scultura di tutto rispetto, quale il Volo di rondini di Enrico
Martini, artista assai attivo tra le due guerre (fu autore, tra l'altro,
della statua colossale di atleta,
destinata da Frosinone allo Stadio dei Marmi a Roma), collocata nel
cortile dell'ospedale di Latina; nonché, nella cattedrale sempre
del capoluogo, la statua bronzea dell'evangelista S. Marco, opera di Francesco
Nagni, anche lui incaricato di commesse prestigiose negli anni Trenta,
che interessarono pure lo stesso ambito pontino: basti pensare al bassorilievo
con "La vittoria in marcia (1934), posto sulla facciata del municipio di
Sabaudia.
La ricerca di Vittori e Serarcangeli interessa anche l'ultimo trentennio,
che vede impegnati in territorio pontino nel campo della scultura monumentale
alcuni dei più noti artisti italiani contemporanei da Emilio Greco
a Umberto Mastroianni, da Domenico Purificato a Simon Benetton - prova
di una vivacità culturale, improntata ad un significativo spaziare
oltre le demarcazioni di stili e tendenze.