ParvapoliS tra i sinti giostri di via Tagliamento

Una giornata al campo nomadi

Pagano le tasse, come tutti. Ma di diritti non ne hanno

C'è il sole, ma la mattina è lo stesso un po' fredda. Una signora anziana è seduta su di una sedia da giardino sul bordo della strada, più in là un bambino, forse quattro o cinque anni d'età, gioca correndo avanti e dietro e allegramente saluta con forte "ciao!", alcuni uomini e ragazzi parlottano, del più e del meno, in piccoli gruppi.
La scena descritta si svolge nel campo nomadi di Latina in via Tagliamento, come direbbero le agenzie immobiliari è una zona semicentrale, esattamente è quella a ridosso del campo sportivo di S. Maria Goretti, dalla parte di piazzale Carturan. Su un lato della strada, quello del campo di calcio, si trova la fila delle roulottes dei nomadi, cioè le loro abitazioni, dall'altro lato un capannone industriale ormai in disuso che porta solo ombra fino a tarda mattinata, in mezzo la strada usata come rettilineo veloce da chi si crede un pilota di formula uno pur guidando un'utilitaria.
Parlando con loro si entra in un altro mondo fatto di tradizioni secolari, che rimangono immutate e non sono scalfite dallo scorrere del tempo. Allo stesso modo si portano dietro la diffidenza ed il pregiudizio della gente per così dire normale ( o meglio: che tale si ritiene), tanto che il cronista che va a visitare il campo è definito un "coraggioso" per questo suo gesto.
Il campo nomadi a Latina esiste da circa vent'anni, attualmente è composto da sette famiglie per un totale di venticinque persone. Il capo del campo è Giancarlo Rovera, 52 anni, sposato con Rossella Crescenzi, 42 anni, con intorno ben otto figli: Arnando (si chiama proprio così, non è un errore di stampa), Nadia, Margherita, Paola, Gianni, Chizzi (dal film Kunta Kinte), Sinué e Jamila l'ultima arrivata da un anno, a loro si aggiungono già tre nipoti. Nomadi da sempre, racconta il capo campo, la sua famiglia è originaria della Spagna da dove arrivarono in Italia, verso l'anno 1650, per andare a stabilirsi in Piemonte. La razza di appartenenza è quella dei "sinti" ed il sostentamento lo traggono dall'attività di giostrai e dalla lavorazione del ferro, anzi vanno fieri della loro capacità di fabbri ferrai e si dichiarano imbattibili e capaci di costruire di tutto.
"La vita del campo non è sempre uguale, bisogna distinguere dall'inverno e dall'estate - spiega Giancarlo Rovera - durante l'inverno siamo fermi, i bambini vanno a scuola e noi adulti ci dedichiamo al nostro lavoro. Recuperiamo il ferro vecchio per poi venderlo, con il ricavato compriamo il ferro nuovo che utilizziamo per costruire e riparare le giostre... facciamo tutto da soli. L'estate invece andiamo nei posti dove sappiamo esserci le feste e lì impiantiamo le nostre giostre. Praticamente giriamo tutta l'Italia, arriviamo qualche giorno prima, montiamo tutto, la mattina dopo che è finita la festa si smonta e si riparte per un'altra città. E' una vita dura, soprattutto per la gente con cui si ha che fare, siamo sempre sulla strada e molti se ne approfittano, tipo: fammi fare un giro sulla giostra e ti pago domani perché oggi non ho i soldi."
Chi pensa che questi zingari siano tanto diversi da noi è meglio che si ricreda infatti anche loro subiscono le tasse "per il campo paghiamo tanti soldi per l'ENEL e faccio regolarmente il 740 - si affretta a rassicurare il capo campo - aggiungete l'assicurazione per le giostre, poi quando andiamo per le piazze bisogna pagare la tassa per l'occupazione di suolo pubblico, la SIAE per le musiche che usiamo, sempre l'ENEL per l'allaccio, bolli e assicurazioni per le roulottes e le macchine, inoltre le licenze devono essere sempre in regola", tutti tranquilli, lo Stato certo non è razzista.
Un aspetto positivo da mettere in risalto è che gli zingari giostrai non si sentono vittime del razzismo, i loro figli a scuola non hanno mai avuto problemi e sono perfettamente integrati e con gli abitanti dei quartieri di Campo Boario e di S. Maria Goretti c'è un buon rapporto che non ha mai generato contrasti. Quale è il motivo che spinge a vivere in modo così disagiato?. Gli zingari rispondono che è la tradizione, essi amano sentirsi liberi e pur potendo fare la domanda per la casa popolare preferiscono la strada, una casa normale li farebbe sentire in galera.
Alcune curiosità. Per sposarsi i due giovani scappano per un paio di giorni, al ritorno li aspetta una grande festa organizzata dalle famiglie, questo è il loro matrimonio che consiste nella semplice convivenza, ma la cosa più curiosa è che i figli porteranno il cognome della madre. Tutti coloro che vivono normalmente in una casa sono chiamati dagli zingari "gangi" e proprio come nelle telenovelas capita che un sinti sposi una gangi e viceversa. La loro lingua è incomprensibile a noi, è una sorta di esperanto e si capiscono solo tra loro anche se appartengono a razze diverse. La causa di ciò l'attribuiscono direttamente a Dio che, quando confuse le lingue ai costruttori della torre di Babele, vedendo gli zingari in disparte a godersi il sole con benevolenza gli concesse di mantenere una sola lingua.
La speranza per il futuro è di vivere in un campo nomadi attrezzato e degno di essere chiamato tale. Un ciglio di una strada non è un campo nomadi, e se questi sinti giostrai, come loro si definiscono, pagano regolarmente le tasse dovranno pur vantare dei diritti. Per il momento gli viene concesso solo un "rimandare la decisione" sull'ubicazione del nuovo campo. Chissà perché. Ad essere maliziosi viene da pensare che per una decina di voti, i nostri politici di qualunque colore, croci o specie vegetale, non hanno voglia di prendersi le giuste responsabilità.